Sin dal primo exit poll molti, in Francia e non solo, hanno tirato un sospiro di sollievo, vedendo Emmanuel Macron saldamente avanti a Marine Le Pen. Il giudizio sul significato del voto dipende però anzitutto dal giudizio che si dà di Jean-Luc Mélenchon (e del suo elettorato): se lo si considera semplicemente una variante magari un po’ pazzerella della sinistra radicale, ma comunque saldamente ascrivibile al campo progressista, o se invece lo si considera più vicino a Le Pen che a Macron, anzitutto sul piano internazionale, considerate le sue posizioni anti-atlantiche. Lui comunque ha dichiarato subito: «Sappiamo chi non voteremo» (riferendosi esplicitamente a Le Pen).
Sta di fatto che se a Le Pen e Mélenchon sommiamo il risultato di Éric Zemmour, che con la sua campagna radicalmente anti-migranti e smaccatamente pro-Putin ha fatto apparire Le Pen una moderata, già in quel primo exit poll i nemici della democrazia liberale arrivavano alla maggioranza assoluta. Del resto Anne Hidalgo, la candidata dei socialisti (spariti al 2 per cento), non aveva esitato in campagna elettorale a metterli tutti e tre nella stessa squadra, tra coloro che giustificano Putin e trasformano gli aggressori in aggrediti.
In ogni caso, chi pensava che la candidatura di Zemmour avrebbe spaccato la destra radicale e favorito i moderati è stato smentito. Al ballottaggio andrà ancora una volta – la terza – la leader del Rassemblement national.
Il risultato di Le Pen al secondo turno sarà importante anche per l’Italia, perché il suo recupero nell’ultima fase della campagna per il primo turno sembra indicare una via, molto simile a quella che la destra italiana ha già tentato di percorrere durante i momenti più difficili della pandemia. Buttarsi a capofitto su posizioni smaccatamente filo-putiniane oggi non paga, come non pagava ieri dichiararsi esplicitamente no vax: forse paga però una posizione che potremmo definire di appeasement, con Putin oggi come con il Covid ieri, dove quel che fa presa non è tanto l’adesione acritica a una causa, quanto la paura delle conseguenze di qualsiasi scelta e dunque il desiderio di non farsi carico dei costi di nessuna posizione.
Di qui la battaglia non tanto contro i vaccini, che i leader della destra non hanno mai negato di essersi fatti somministrare, sebbene senza darlo troppo a vedere, ma la battaglia contro il green pass, contro chiusure e divieti, contro i sacrifici. In questo, naturalmente, c’è anzitutto l’elemento più tipico di tutti i populismi, cioè una retorica che rifiuta il principio di realtà, in quanto rimuove qualsiasi rovescio della medaglia. Un tempo la destra sosteneva il taglio delle tasse e conseguentemente la riduzione della spesa sociale, sia pure con le furbizie del caso; perché certo, demagogia se ne è sempre fatta, e anche venti o trent’anni fa nessuno dichiarava di volere smantellare lo stato sociale, non è questo il punto. Il punto è che oggi, non solo in Italia, sempre di più la destra populista chiede, direi con uguale enfasi, l’aumento della spesa assistenziale e il taglio delle tasse, l’abbassamento dell’età pensionabile e la flat tax.
A tutto questo però adesso occorre aggiungere due variabili drammatiche e decisive: la pandemia e la guerra. Per un momento, soprattutto nelle fasi più difficili della lotta contro il virus, abbiamo pensato – io almeno l’ho pensato di sicuro – che l’istinto di sopravvivenza avrebbe prevalso, imponendo un approccio più razionale anche alla politica.
Allo stesso modo in queste ultime settimane ci siamo forse illusi che l’immane tragedia sotto i nostri occhi in Ucraina bastasse a chiarire una volta per tutte chi era Putin e chi erano i suoi sostenitori italiani ed europei, confidando ancora una volta, se non nella razionalità, almeno nell’istinto di sopravvivenza degli elettori.
Vedremo come andrà il secondo turno delle presidenziali francesi. Ma i risultati di ieri sera non consentono, almeno per ora, facili entusiasmi. Il risultato di Le Pen minaccia di fare scuola anche in Italia.