Questo è un articolo dell’ultimo numero di Linkiesta Magazine + New York Times Turning Points 2022 in edicola a Milano e Roma e ordinabile qui.
Nessuno conosce il numero preciso di africani che stanno morendo, senza che neppure si conosca il loro nome, nel tentativo di attraversare il Mar Mediterraneo. Quelli che non ce la fanno di solito non sono riportati nelle statistiche, ma le stime, che si basano sul conteggio delle persone salvate dalle guardie costiere dell’Europa meridionale e del Nord Africa, suggeriscono che i migranti africani – donne, uomini e bambini – che affogano ogni anno in mare siano nell’ordine delle migliaia. E, come ultimo anello di questa catena di disperazione umana, ci sono le persone che seppelliscono i corpi di questi migranti, o i loro resti disfatti, dopo che le crudeli correnti li hanno espulsi dal mare gettandoli sulle coste.
Uno di questi luoghi è Zarzis nella Tunisia sudorientale. Lì, lo scorso giugno, l’artista algerino Rachid Koraïchi ha deciso di costruire un cimitero in cui si spande il profumo di fiori di gelsomino e di arancio e lo ha chiamato Jardin d’Afrique, e cioè Giardino d’Africa. Io non ho visto di persona questo giardino-cimitero, ma sono stato colpito da una sua magnifica descrizione sul quotidiano Le Monde, nella quale il giornalista sottolineava la presenza di «tazze gialle e verdi che hanno lo scopo di raccogliere l’acqua piovana e attrarre gli uccelli» e che sono incastonate nelle tombe bianche.
Koraïchi offre a quelli che, parole sue, sono stati «dannati dal mare» questa bellezza paradisiaca come compensazione per la sofferenza che hanno patito prima di morire. Il Giardino ha già quasi raggiunto la sua massima capienza e questo testimonia quali siano le dimensioni di questa terrificante ecatombe moderna.
Il mondo intero è pieno di confini naturali pericolosi: il Río Grande che separa il Messico dagli Stati Uniti, ad esempio, si porta via numerose vite ogni anno. Ma il Mediterraneo centrale è più letale. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, circa ventimila africani sono morti o scomparsi in quel tratto di mare dal 2014 a oggi, e questo numero non tiene conto dei migranti dal Medio Oriente e dall’Est dell’Africa che scompaiono nel Mediterraneo orientale davanti alle coste della Grecia e della Turchia.
Tutti credono di sapere perché la gente del Sud del mondo sia attratta dal Nord del mondo. Immaginiamo che questi migranti scelgano di lasciare le loro case perché il Sud è invivibile, perché il Sud è ingestibile, perché il Sud è privo di pietà per chi è povero. Il Nord non è da meno, ma ci immaginiamo che i migranti non credano che le cose stiano così. Questi uomini e queste donne che provengono dall’Africa nera o dal Maghreb, e fra i quali ci sono molti giovani, rischiano le loro vite per intraprendere il viaggio verso l’Europa, attraversando il Mediterraneo centrale partendo dalla Libia, e lo fanno per smettere di sopravvivere e iniziare a vivere e per offrire un futuro alle loro famiglie. Per l’intero viaggio possono volerci molti anni.
Sono sempre stato colpito dalla ricorrente e ormai familiare rappresentazione dell’apocalisse nei film americani che appartengono al genere catastrofico: niente più elettricità, niente più acqua corrente, nessuna garanzia di avere cibo sufficiente, niente ospedali. La scomparsa, insomma, di tutte le cose che persone come voi e come me hanno a disposizione e a cui non fanno nemmeno caso. Eppure, questa evocazione romanzata della Fine del Mondo è ciò che la metà dell’umanità vive tutti i giorni. Per miliardi di diseredati la vita è davvero un incubo a occhi aperti. E il fatto di poter mangiare, bere, lavarsi e vestirsi è una battaglia quotidiana.
I migranti che decidono di scappare dalla violenza di questa miseria sanno che esiste un mondo in cui vivere non significa semplicemente sopravvivere. Queste persone, che vedono il Nord come il contrario del mondo in cui vivono loro (e cioè come una raggiungibile oasi di pace e di tranquillità, in cui una bella vita sia alla portata di chiunque abbia voglia di lavorare), hanno uno sguardo lucido e preciso e allo stesso tempo sono accecate dalla speranza. Mentre quelli che vengono inghiottiti dal Mediterraneo forse muoiono senza avere neanche avuto la possibilità di perdere le loro illusioni sul Nord, anche le illusioni dei sopravvissuti, che sono trattenuti in centri detentivi nell’Europa meridionale o nel Nord Africa, possono rimanere intatte?
È utile chiedersi di chi sia la colpa di questa catastrofe? Le responsabilità politiche possono essere ripartite tra il Nord e il Sud e sono intrecciate in maniera tale che ciascuna delle due parti può avanzare solidi argomenti per sgravarsi di ogni colpa. Il Sud non è stato forse a lungo una vittima mentre le sue ricchezze venivano sfruttate dal Nord? E il Nord, che ci piaccia o meno ammetterlo, non ha forse tirato fuori dall’acqua un numero incalcolabile di migranti, salvandoli da una morte in mare?
C’è una regola etica – un “imperativo categorico” – che un filosofo del Diciottesimo secolo ha collocato al centro del suo sistema fondativo della filosofia morale: «Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo».
Dobbiamo questo “imperativo” alla pionieristica “Fondazione della metafisica dei costumi” di Immanuel Kant (la traduzione in italiano della frase precedente è tratta dall’edizione Utet del 1995, a cura di Pietro Chiodi, ndr). Tutti quelli che si danno da fare per salvare le vite dei migranti – non soltanto nel Mediterraneo ma in tutto il mondo – agiscono in conformità con quanto prescritto da Kant, sia con il corpo sia con lo spirito. E meritano non soltanto il nostro plauso e il nostro rispetto ma anche un robusto supporto internazionale. Per quanto riguarda il caso che stiamo prendendo in considerazione, è grazie a questi individui di buona volontà – sostenuti da organizzazioni non governative oppure dagli uffici delle Nazioni Unite – se il Mediterraneo può continuare a farsi passare per la culla della civiltà e non come la sua tomba.
Artisti e pensatori come Rachid Koraïchi hanno il ruolo di mantenerci svegli e vigili. Il suo cimitero non è soltanto una consolazione per le anime perdute nel Mediterraneo e per chi voleva loro bene, ma è anche un’opera che esprime – meglio di come potrebbero fare cento discorsi – il dolore che il Nord e il Sud devono condividere. Avvolgendo i nostri cuori con la sua bellezza il Jardin d’Afrique ci sensibilizza su ciò che patiscono i migranti in tutto il mondo, rinnovando il nostro senso di umanità condivisa. La generosità e la solidarietà non sono illusioni. Esistono all’interno delle società del Nord, così come in quelle del Sud.
Il Jardin d’Afrique ci ricorda dell’unica cosa che salva l’umanità stessa da un naufragio collettivo: il rifiuto di rimanere indifferenti alle sofferenze degli altri.
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