Peggio di MonacoLa pace che serve a Putin per vincere la guerra che sta perdendo

Concedere a tavolino ciò che il Cremlino non riesce a conquistare sul piano bellico sarebbe molto peggio della Conferenza che nel 1938 diede il via libera a Hitler. Non significherebbe riconoscere la soverchiante forza del nemico, ma correre in soccorso della debolezza dell’aggressore (che per molti opinionisti è anche l’amico)

LaPresse

Fin da prima della aggressione dell’Ucraina il partito trasversale del «bisogna distinguere» e del «non bisogna confondere», oltre a negare l’evidenza dei fatti di un’invasione programmata da mesi, ha negato la fondatezza e la legittimità di qualunque possibile parallelo tra quanto Adolf Hitler aveva ottenuto a Monaco nel 1938 e quanto Vladimir Putin voleva ottenere dai capi di stato e di governo che obbligava agli umilianti pellegrinaggi al tavolone del Cremlino: la legittimazione delle sue pretese sull’Ucraina. 

Invece quel paragone, in apparenza così ingenuo e così abusato, con il passare dei giorni si mostra sempre più esatto e pertinente. Non solo perché i massacri di civili e la cecenizzazione della guerra hanno ragguagliato l’orrore nazista (e stalinista, per rimanere nei paraggi ideologici del putinismo), ma soprattutto perché la natura di quella trappola che Putin immagina per l’Europa ha tutte le caratteristiche di quella in cui Francia e Germania finirono nel 1938: un accordo per una pace provvisoria, negli interstizi della guerra permanente.

Quando Neville Chamberlain ed Édouard Daladier rientrarono in patria dopo il patto di Monaco furono accolti come trionfatori e salvatori della pace. Ma le cose, come è noto, andarono in un’altra direzione, dando ragione a Churchill: il disonore della resa non avrebbe scongiurato, ma legittimato l’aggressione contro le democrazie francese e inglese. 

Alcune letture storiografiche sulle ragioni dell’appeasement giustificano la scelta pacifista, sostenendo che Francia e Inghilterra non avrebbero in ogni caso avuto scampo contro la soverchiante potenza militare tedesca e quindi il via libera al nazismo verso est avrebbe almeno ritardato l’espansionismo tedesco verso ovest. Senza entrare nelle diatribe interpretative su quella decisione fatale, è importante rilevare come, ammettendo la fondatezza di una lettura più indulgente verso Chamberlain e Daladier, esca ancora rafforzato il confronto tra l’appeasement fatto ai tempi con Hitler e quello auspicato oggi con Putin e quindi esca ancora aggravato il giudizio sulla responsabilità di chi chiama pace il trofeo da consegnare all’aggressore del Cremlino. E si tratta, in questo caso, di un giudizio che si aggrava non solo, per così dire, per le somiglianze, ma anche per differenze tra le due capitolazioni.

Partiamo dalle somiglianze. Come nel 1938, anche oggi l’alibi dell’aggressione è rappresentato dall’esigenza di proteggere minoranze nazionali discriminate o perseguitate in paesi terzi: i tedeschi dei Sudeti in Cecoslovacchia, i russi del Donbass in Ucraina. Come nel 1938 ai tedeschi, la scelta di un paradigma etno-nazionalista consente ai russi oggi di aprire nuovi fronti in ogni dove dell’ex impero sovietico. C’erano tedeschi ovunque nell’Europa dell’est per giustificare le pretese del Reich e ci sono russi e russofoni pressoché ovunque nei paesi emancipati dal dominio di Mosca dopo il crollo dell’Urss. 

L’altra evidente somiglianza tra la Monaco di allora e quella implorata ora è la difficoltà di salvaguardare equilibri politici e territoriali stabili per democrazie costrette a misurarsi con un antagonista non democratico e ideologicamente espansionistico, prima che militarmente imperialistico. Quello nazifascista non era solo un pericolo per le democrazie, ma un modello competitivo con quello democratico anche all’interno dei paesi democratici.

Il putinismo è da tempo anche un prodotto d’esportazione e dalla centrale del Cremlino è partita in questi anni una strategia di persuasione, condizionamento, corruzione, arruolamento e ricatto verso il cuore dell’Occidente democratico, che ha sedotto e soggiogato popolo e élite sempre più convinte che, come disse Putin nelle sua famosa intervista al Financial Times nel 2019, il liberalismo sia obsoleto e abbia fatto il suo tempo, perché milioni di persone, anche nei paesi democratici, si stanno rivoltando contro le sue più evidenti conseguenze: la globalizzazione economica, il multiculturalismo, l’immigrazione.

Il nazionalismo blut und boden (sangue e suolo), l’autoritarismo carismatico e il totalitarismo ideologico come alternative all’incertezza economica e agli squilibri politici delle democrazie in crisi. Sotto questo profilo, la sfida hitleriana e quella putiniana sono davvero sinistramente simili. La differenza tra l’una e l’altra sfida, oggi, non sta nella diversa caratura criminale dei due personaggi e nella diversa proiezione dei rispettivi disegni egemonici: sta proprio nella natura assai più effimera della potenza russa e quindi nella natura assai meno giustificabile dell’appeasement con il Cremlino.  

Se si può ragionevolmente ipotizzare che Hitler nel ’38 avrebbe fatto davvero un solo boccone delle democrazie che lo autorizzarono a sbocconcellare la Cecoslovacchia, non c’è alcun dubbio invece che, quanto a rapporti di forza, la Russia putiniana non sarebbe in grado di reggere alcun confronto né militare, né politico, né economico con il campo euro-atlantico. L’intimidazione nucleare e l’utilizzo criminale di mercenari sanguinari, chiamati a rimediare all’impreparazione di un esercito raccogliticcio e inefficiente servono a paralizzare il nemico europeo nel terrore, ma non dimostrano affatto una superiorità schiacciante. Al contrario dimostrano la natura disperata e nichilistica dell’opzione russa. 

La Russia putiniana può diventare una al Qaeda planetaria, non un Reich post-sovietico. Si continua a discutere dell’embargo energetico guardando a quanto costerebbe agli stati europei, ma sembra paradossalmente impossibile prendere atto, con fiducia e sollievo, che da solo forse basterebbe a spegnere i motori della guerra. Putin non può vincere neppure la guerra contro l’Ucraina, figurarsi quella contro l’Occidente. Per questo cerca una vittoria al tavolo della pace pacifista, della pace senza giustizia.

Qualunque strategia volta a scongiurare l’allargamento del conflitto sacrificando l’Ucraina o pezzi di Ucraina alle pretese di Mosca non risponde quindi a uno stato di necessità, ma a una valutazione politica totalmente sbagliata su quale sarebbe il prezzo politico della cosiddetta pace, non solo per l’Ucraina, ma per l’Europa. Preoccupati dalla prosecuzione della guerra, dai suoi costi economici, dalla ferita ucraina aperta e sanguinante nel cuore del continente, troppi politici italiani ed europei non sembrano temere che Putin vinca la guerra, ma al contrario che non sia in grado di vincerla e la possa cronicizzare e allargare in forma non convenzionale, continuando a minacciare con i suoi miasmi la pace e la sicurezza europea. 

L’idea che, dopo tutto quello che è successo, la Russia di Putin possa essere riabilitata dal rango di stato canaglia da isolare e da rovesciare e ridiventare un rispettabile interlocutore post-bellico significa che troppi leader democratici europei non hanno idea di quale siano i pericoli per la democrazia e che Putin controlla ancora troppe casematte nel sistema di potere dei paesi europei, a partire proprio dall’Italia.

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