Il voto dimenticatoIl silenzio colpevole che è calato sui referendum di giugno

Azzoppati dalla Corte Costituzionale e messi da parte dalla guerra in Ucraina, le consultazioni promosse dai Radicali rappresentano, più che una riforma, un passo avanti che il Parlamento da solo non sa fare. Ma la politica tace e Salvini, l’unico a sostenerli, è il soggetto meno adatto

di Arnaud Jaegers, da Unsplash

Ci aveva già pensato la Corte Costituzionale a mutilare la campagna referendaria sulla giustizia amputando dalla sestina dei quesiti quello più popolare, sulla responsabilità civile dei magistrati. Poi c’ha pensato la guerra di Putin all’Ucraina a derubricare i referendum della prossima primavera-quasi-estate, il 12 giugno, a secondo voto invisibile di una campagna amministrativa parziale, che coinvolgerà circa 8 milioni di elettori, solo un sesto del totale. In ogni caso, per non regalare ulteriore vantaggio alla campagna astensionista, che nei fatti sembra destinata a trionfare, è il caso di riprendere il capo del filo dei referendum. E il capo rimanda a un passato, che, con ogni evidenza, non è passato.

«Pensate a una stella. Pensate che non la guarderete più per dieci anni. Poi pensate “ma io sono innocente”. Adesso capite perché si può decidere di votare Radicale?». Queste le parole di Enzo Tortora su uno sfondo di stelle, nello spot elettorale per la lista del Partito radicale alle politiche del 1987. Tortora è, si può dire, l’alfa e l’omega politico del caso della giustizia in Italia.

Tortora è l’alfa, perché tutto inizia con lui. Se è vero che il problema della giustizia ingiusta affliggeva l’Italia da molto tempo (sin dai tempi pestilenziali del Piazza e del Mora e della Colonna infame di manzoniana memoria, verrebbe da dire, ma limitandoci all’Italia repubblicana possiamo citare il processo Braibanti), il caso Tortora ne è la rivelazione: la rivelazione mediatica, la rivelazione politica, la rivelazione coram populo; una rivelazione talmente abbagliante da non potersi più ignorare. L’Italia tutta scopriva ciò che molti poveri cristi, molti disgraziati, molti nessuno, rimasti imbrigliati nella tela dell’ingiustizia giudiziaria, avevano sperimentato sulla propria pelle e denunciavano inascoltati e che altri ancora – gli addetti ai lavori per primi – sapevano, ma tacevano. E l’Italia è sconvolta dalla rivelazione, perché capisce che se tutto quello era accaduto a Tortora, poteva accadere (e regolarmente, di fatto, accadeva) a chiunque.

Tortora è anche l’omega del caso giustizia perché, ancora oggi, tutti gli errori giudiziari, tutte le carenze del sistema penale e giudiziario riportano a Tortora e all’attualità di quello scandalo. Difatti, il referendum sulla giustizia del 1987 che fu promosso, appunto, dai Radicali, a seguito del deflagrare del caso Tortora, era sulla responsabilità civile dei magistrati. Referendum vinto con gradissimo consenso e poi tradito. E quello della responsabilità dei magistrati – di quella civile e di quella disciplinare – è rimasto da allora un problema aperto e irrisolto. I magistrati sono tutti bravi, tutti capaci, tutti competenti, tutti meritevoli di promozioni. Anche le loro valutazioni professionali, protette dello scudo corporativo, sono per oltre il 99% positive. D’altra parte, anche gli accusatori di Tortora videro spalancarsi in seguito a quell’orrore le porte del Csm e di prestigiosi incarichi direttivi. Perciò il Partito Radicale era ripartito anche quest’anno dal referendum sulla responsabilità dei magistrati. Perché occorreva letteralmente ricominciare da capo, visto che la riforma introdotta dal governo Renzi ha sicuramente ampliato il diritto al risarcimento da parte dello Stato dei cittadini danneggiati dalla malagiustizia, ma non ha per nulla reso i magistrati più responsabili delle loro colpe.

Il caso Tortora è significativo anche in un altro senso: come si sa, a monte e a giustificazione di tutto, vi fu una casuale confusione tra due cognomi quasi identici. Tortora, Tortona. Completamente fortuita. Ritorniamo, quindi, a quello che diceva Tortora nel 1987: «Poi pensate “ma io sono innocente”». Qui tutta la forza emotiva dirompente del caso Tortora: è stata la dea bendata, ma non la giustizia, il caso (Tyke, non Dike) a innescare il travaglio di Tortora e, come a lui, tanto sarebbe potuto accadere a chiunque.

Tuttavia, il rapporto tra il diritto e il caso è atavico, e in Italia sembra essere diventato, nell’immaginario collettivo e sociale, inscindibile. Racconta Borges ne “La lotteria a Babilonia” di come in un’immaginaria Babilonia la lotteria fosse diventata un’istituzione al punto da decidere la buona e cattiva sorte degli uomini, comprese le condanne alla prigione o alla morte. «Ho conosciuto ciò che ignorano i greci: l’incertezza», dice il narratore nel breve racconto di Borges: e questo può avere un significato molto preciso. La commistione e l’identificazione fra caso e giustizia (e la tacita accettazione di questo fatto come di una necessità fatale) è tipica degli stati assoluti, non delle repubbliche; è accettabile per il suddito, non per il cittadino. Infatti, il suddito patisce tutti i capricci dello Stato (e del sovrano) quali inevitabili e dovuti; la giustizia come arbitrio, come incertezza. Nella Repubblica invece il cittadino non accetta di rimanere in balia di un potere arbitrario e indiscutibile e i meccanismi che regolano la giustizia, per essere accettabili, devono essere razionali e prevedibili.

Tornando, dunque, in Italia è naturale che la causa della giustizia giusta sia una causa liberale. È una causa liberale perché guarda ai diritti del singolo, non alle pretese punitive della società, non all’odio da aizzare alternativamente su imputati o magistrati (come fa Salvini). È una causa liberale perché stabilisce l’identità tra giustizia e diritto, non tra giustizia e potere. È una causa liberale perché opera affinché il destino dei cittadini non sia in mano al caso e alle emozioni del “popolo giudice” in un moderno auto-da-fé, ma alla freddezza e alla cecità, sicure e razionali, della legge. Però, proprio perché è una causa liberale, questa è una causa impopolare tra i politici, anche quelli che si definiscono liberali.

È sorprendente il mutismo che circonda i referendum. Anche chi li ha sostenuti la scorsa estate, sembra essersene dimenticato, e la sinistra, pure quella formalmente garantista, mette in guardia dall’utilizzo dello strumento referendario: certe cose si fanno in Parlamento, dice. Ma non dice la verità, cioè che queste cose in Parlamento non si fanno, non si sono fatte e non si faranno e che è esattamente questo il problema a cui i referendum provano a porre rimedio.

Nel 2000 Silvio Berlusconi invitò all’astensione (e vinse clamorosamente) sui referendum Radicali che vedevano, tra gli altri, numerosi quesiti sulla giustizia (elezione del CSM, separazione fra ruolo inquirente e giudicante dei magistrati, incarichi extragiudiziari dei magistrati: vi ricordano nulla?); disse, Berlusconi, che la riforma organica della giustizia, comprese le belle cose oggetto dei referendum, l’avrebbe fatta lui, una volta arrivato al governo. Non fu così.

Sarebbe ora ingenuo sostenere che i referendum (quelli di oggi, proposti dal Partito Radicale) rappresentino una radicale svolta e una riforma completa della giustizia, tuttavia essi rappresentano un passo avanti che il Parlamento da solo non sa e non saprà fare. Per questo, sono necessari e indispensabili. Per questo la loro probabile vanificazione, via mancato raggiungimento del quorum, condannerà i rapporti tra giustizia e politica a rimanere rapporti tra potenze e non tra poteri dello stato, tra fazioni interessate a difendere i rispettivi “spazi vitali”, non a civilizzare l’amministrazione della giustizia.

Tuttavia, non si possono combattere i sintomi di un male facendone prosperare il virus che l’ha causato. Per questo motivo è impensabile che i referendum sulla giustizia rimangano prerogativa e monopolio della Lega salviniana. La Lega ha negli ultimi anni (e anche prima) aizzato e fomentato un odio giustizialista di rara intensità. Salvini ha proposto pene più alte per qualsiasi reato, chiesto la castrazione chimica per gli stupratori, difeso in qualunque contesto le violenze della polizia e degli agenti penitenziari, incitato alla gogna contro spacciatori presunti sulla base di qualche pettegolezzo, promosso la legge sulla legittima difesa (che sembra più una legge sulla legalizzazione della vendetta privata) e steso, votato e supportato uno dei provvedimenti più giustizialisti degli ultimi anni, ovvero la legge Bonafede sulla prescrizione.

È chiaro che la cura non può venire da uno degli avvelenatori dei pozzi e che la faccia di una vera riforma non può essere la sua. Dunque, è altrettanto chiaro che è assolutamente necessario che i referendum sulla giustizia vengano supportati e promossi con i diversi argomenti e con le giuste motivazioni. È il tentativo che sta facendo il “Comitato garantista per il sì”: proprio per ribadire che il garantismo è l’unico terreno fertile da cui possa nascere una riforma all’esito dei referendum, l’unico “luogo” veramente adatto alla battaglia referendaria.

Il Comitato è promosso da Italia Europea e Comitato Ventotene – due associazioni di giovani, ma soprattutto “giovani” della frammentatissima galassia liberal-democratica e europeista – e il suo obiettivo è di risvegliare e richiamare la politica (e soprattutto la politica liberale) alla improrogabile e liberalissima necessità di riformare la giustizia, partendo appunto da quella penale, che è stato negli ultimi trent’anni il campo di battaglia della guerra civile permanente tra i poteri e dentro i poteri dello Stato. Non sarà certo questo comitato volonteroso a cambiare il segno della campagna referendaria, ma indica chiaramente la direzione in cui questo potrebbe avvenire, per impedire che il dibattito sulla giustizia rimanga il gioco delle parti in cui i cattivi sono sempre gli altri – per la destra la sinistra, per la politica i magistrati e viceversa – e ciascuno continui a chiamare giustizia la propria idea del potere di giudicare e di condannare il “nemico”.

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