GastropoliticaFinisce l’alleanza delle bollicine tra Reims e San Pietroburgo

In seguito alle sanzioni contro la Russia, il distretto della Champagne perde uno dei mercati più promettenti con rilevanti le conseguenze economiche e culturali. Ma i rapporti enoici erano travagliati già molto tempo prima di Putin

Il 15 marzo l’Unione Europea ha ufficialmente proibito ai suoi paesi membri di esportare verso la Russia un’ampia gamma di prodotti, tra cui i vini pregiati. Una decisione, tra numerose altre, destinata di sicuro a complicare le relazioni Russia-Europa, quale che sia l’esito della guerra in corso. Relazioni ingarbugliate e non facili da sciogliere per molti privati, società e governi occidentali…
Leroy-Merlin e Auchan, potenti marchi della grande distribuzione d’Oltralpe, hanno deciso di mantenere le loro attività in Russia con, tra le altre cose, notevoli rischi di penalizzare la propria immagine. Dopo iniziali tentennamenti Decathlon ha invece deciso di chiudere i battenti, sembrerebbe anzitutto per difficoltà di approvvigionamento. Il gruppo Renault (con Nissan e Avtovaz, detentore del marchio Lada) impiegava 45.000 dipendenti e vendeva a Mosca 500.000 veicoli l’anno, ma ha sospeso la produzione in loco.
L’attore, gourmet e proprietario di aziende viticole Gérard Depardieu, transfugo fiscale a Mosca dal 2013 e da anni ufficialmente franco-russo, pare aver sbrigativamente archiviato i rapporti con Putin: si è schierato in modo aperto contro l’intervento militare, annunciando che devolverà l’intero incasso dei suoi spettacoli parigini di inizio aprile alle vittime ucraine della guerra. Quanto alla filiera champenoise l’agrodolce dossier russo potrebbe essere intricato da dipanare.

Fine di un’ascesa
Il Comité interprofessionnel des vins de Champagne (Civc) sottolinea che non solo la decisione (Pesc) 2022/430 di Bruxelles è rispettata alla lettera, e che dunque neanche una bottiglia è più esportata verso la Russia, ma anche che questo mercato è tutto sommato poco rilevante: tra 1 e 1,4% dei volumi complessivi di champagne.
Vero: per Reims e Épernay Mosca non era certo un partner commerciale del calibro di Washington, di Londra né di Tokyo, ma non si può dire che fosse trascurabile. Nel 2019 rappresentava comunque il 16° mercato export, salito al 15° posto (+9,7%) nel bel mezzo della pandemia di Covid, muovendosi controcorrente proprio durante un 2020 tragico per le esportazioni effervescenti francesi. E soprattutto era un mercato in piena e costante espansione, alimentato dalle crescenti diseguaglianze sociali del regime putiniano: la Champagne vendeva alla Russia appena 163.000 bottiglie nel 2000, ma ben 1,9 milioni vent’anni più tardi (per oltre 35 milioni di euro di controvalore). Non senza qualche singolarità, ad esempio la passione per lo champagne rosé, di cui Mosca era il terzo consumatore mondiale (15% di tutte le esportazioni di questa tipologia).

Avvisaglie estive
Se non erano esplicite minacce militari, l’intelligence di Reims ed Épernay doveva aver sentito odore di bruciato già vari mesi prima dell’invasione dell’Ucraina. Nel luglio del 2021, infatti, come un fulmine a ciel sereno, una nuova legge della Duma aveva improvvisamente vietato allo champagne di farsi riconoscere in terra russa. Peggio ancora: riservava ai soli spumanti nazionali la facoltà di definirsi “Shampanskoe” – traduzione russa del nome Champagne – ingiungendo ai vini stranieri, tra cui l’aristocratico cugino francese, di etichettarsi in alfabeto cirillico come semplici vini spumanti. Uno scandalo. «Questa nuova legge – scriveva indignato il CIVC, reputandola inaccettabile – rimette in causa oltre vent’anni di discussioni bilaterali tra la Francia e la Russia sulla protezione delle denominazioni d’origine».

Due secoli di amore-odio
Il travaglio nei rapporti tra la Champagne e la Russia non è però storia recente. Già nei primissimi anni dell’Ottocento la Francia esportava con successo il suo nobile vino effervescente verso San Pietroburgo – all’epoca capitale imperiale e principale porto per il commercio marittimo nord-europeo –, ma gli attriti non si fecero attendere a lungo. Nel suo enciclopedico volume, “Le livre d’or du Champagne”, François Bonal fornisce molti gustosi dettagli dei rapporti con San Pietroburgo. Ad esempio, dopo lo sviluppo della vitivinicoltura voluto a fine Seicento da Pietro il Grande proprio nella Crimea e nel bacino del Don oggi martoriati, già nel 1799 vi si produceva dello spumante ispirato alla metodologia francese. Addirittura, nel corso dell’Ottocento, il governo imperiale incoraggiò la crescita della viticoltura e dell’enologia locali inviando produttori a studiare in Champagne e in Borgogna, regioni con le quali riteneva che le aree viticole russe avessero alcune analogie.

Il XIX secolo è un braccio di ferro incessante: tra la passione imperiale per le bollicine di Reims, ingenti importazioni destinate a meno di 300.000 russi (aristocratici, ricchi mercanti e latifondisti terrieri) e una concorrenza interna non sempre leale. Marie e Émile Ducoudray (“Vin et champagne français en Russie dans la première moitié du XIXe siècle”) stimano infatti che se i russi importavano un milione di bottiglie l’anno dalla Francia (quasi quanto nel XXI secolo!), ne consumassero tre milioni! Poiché i conti non tornano è facile dedurne l’esistenza di un vitalissimo sottobosco di contraffazione, del resto largamente documentato.
L’Ottocento è anche il secolo del successo di Veuve Clicquot Ponsardin a San Pietroburgo, della nascita del Cristal Roederer, tiratura di prestigio appositamente creata per lo zar Alessandro II nel 1876, e del gusto russo per uno champagne così dolce da risultare probabilmente imbevibile per l’intenditore odierno. Ma è anche il punto dell’origine della sciabolatura, “tecnica” di decapitazione della bottiglia usando una sciabola, imputabile, pare, proprio ai cosacchi che invasero la Champagne durante le guerre napoleoniche, e che in quei tempi oscuri meriterebbe di restare relegata.
La passione dei russi per l’effervescenza dorata concorse a estendere la viticoltura lungo la costa del Mar Nero, dove del resto erano proprio i facoltosi villeggianti ad assorbire una parte delle 500.000 bottiglie di spumante locale prodotte ogni anno. Una passione che faceva scorrere fiumi di champagne al Novo Troitskoi Traktir, ritenuto il miglior ristorante moscovita dell’epoca. Una passione che, accreditando Čechov, Dostoevskij e Tolstòj, si estese poi anche alle fasce sociali mediane.

I russi non smisero però di intralciare i loro fornitori, imponendo dazi considerevoli, più alti ancora che per gli altri vini stranieri, e non aderendo all’accordo multilaterale di Madrid (1891), che tentava di gettare le basi della lotta alle frodi commerciali. Nel 1904 i ministeri francesi del Commercio e degli Esteri chiesero invano che fosse ritirato il marchio commerciale “Grand Vin de Champagne Henri-Roederer – Reims – Odessa”, usato da qualche anno da una società del sud dell’attuale Ucraina. Ci penserà la Rivoluzione d’Ottobre a far piazza pulita del mercato russo dello champagne. Ma neanche il crollo dell’impero sovietico basterà a normalizzare e appianare i rapporti Reims-Épernay-San Pietroburgo-Mosca. Per non parlare dei tempi che stiamo vivendo, che fanno passare in secondo piano le sorti del re delle bollicine.

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