Come fermare l’aggressione Le sanzioni alla Russia potrebbero essere un’arma a doppio taglio per l’Europa

Dopo il gasdotto Nord Stream 2, si ragiona sugli eventuali interventi futuri. Le ipotesi vanno dall’esclusione di Mosca dal sistema bancario SWIFT al settore energetico. Ma potrebbe essere l’Unione Europea a subirne le conseguenze maggiori

Il riconoscimento delle «repubbliche» indipendenti del Donbass da parte della Russia ha sbloccato la prima batteria di sanzioni occidentali, dopo la guerra di nervi delle ultime settimane.

Il sistema bancario del Cremlino è tra i bersagli individuati sia dagli Stati Uniti che dall’Unione europea: l’obiettivo è togliere l’ossigeno del dollaro (e dell’euro) ai circuiti moscoviti, ma delle tre banche colpite – VEB.RF, Bank Rossiya e la banca militare Promsvyazbank – le prime due operano da anni sotto il giogo delle sanzioni occidentali e la terza aveva presagito questa eventualità e si era già equipaggiata. Oltre alle banche, l’Europa intende colpire 351 parlamentari della Duma e un’altra manciata di oligarchi russi, che subiranno anche la scure americana. Inoltre il presidente degli Stati Uniti Joe Biden aveva già firmato un ordine esecutivo che vieta nuovi investimenti, scambi e finanziamenti da parte di cittadini statunitensi nei territori separatisti; è pur vero che non sono molti gli americani che fanno business nel Donbass. Ci sono poi le sanzioni sul debito sovrano russo.

Non è stato un approdo facile: Biden avrebbe preferito ingranare subito la quarta con il pacchetto più duro di provvedimenti («start high, stay high»), ma gli europei – Francia, Germania e Italia in testa – hanno frenato. A prevalere è stato infine uno schema flessibile: sanzioni subito, ma contenute, sperando che lo spauracchio di misure più rigide sia un deterrente efficace. A ben vedere, un approccio del tutto simile a quello adottato dopo l’annessione della Crimea nel 2014, che a giudicare dagli ultimi sviluppi non ha dato i frutti desiderati.

«È un inizio» commenta a Linkiesta Alessia Amighini, economista e co-direttrice del programma Asia all’Ispi, «ma temo che per Putin questo sia al più un disturbo amministrativo».

Qualcosa di più che un fastidio potrebbe rappresentare però il colpo inferto al debito sovrano: l’obiettivo è impedire al governo di Mosca l’accesso ai mercati dei capitali europei e americani, limitando il finanziamento delle politiche pubbliche.

In sostanza, nessuno potrà più scambiare titoli di Stato russi fuori dalla Russia. E benché il debito pubblico russo sia contenuto e il Cremlino negli ultimi anni stia riducendo la sua dipendenza dagli investitori stranieri (il debito pubblico detenuto all’estero è diminuito di altri due miliardi e mezzo nel 2021), un simile provvedimento potrebbe indebolire ulteriormente il rublo, scuotere il mercato azionario russo e congelare lo scambio di obbligazioni governative. D’altronde la borsa di Mosca ha già perso il 30 per cento del valore negli ultimi 4 mesi, mentre il rublo ha toccato i minimi degli ultimi 15 mesi.

Ora che la prima tranche di sanzioni è stata approvata, si intensifica il confronto su come rispondere in caso di escalation, per esempio se Mosca decidesse di invadere il resto del territorio del Donbass o bloccasse l’accesso al porto di Odessa. Il tema è stabilire una correlazione tra sanzioni e gravità degli eventi.

Un’opzione ancora considerata “leggera” sono le sanzioni tecnologiche, sulla scorta di quelle usate da Trump per azzoppare la società cinese di telecomunicazioni Huawei. Stati Uniti e Unione europea potrebbero interrompere la fornitura di tecnologie alle aziende sanzionate, dai semiconduttori alle componenti per l’aviazione, smantellando le catene di produzione e ostacolando settori strategici per la Russia, come l’industria della difesa o quella aerospaziale. Sempre che Xi Jinping non accorra in aiuto di Putin, dato il loro comune intento di indebolire il posizionamento di Washington sullo scacchiere internazionale.

Ben più pesante sarebbe invece l’esclusione della Russia dal sistema dei pagamenti internazionali Swift, la rete sicura che collega migliaia di istituzioni finanziarie in oltre duecento paesi: Mosca non potrebbe più effettuare transazioni in dollari o in altre valute estere. Un bel problema per un’economia altamente “dollarizzata” come quella russa, riflesso del ruolo giocato nel paese dalle risorse naturali, che storicamente si scambiano in dollari. Una sanzione simile nei confronti dell’Iran ha comportato la perdita di un terzo del suo commercio estero. E quando dopo l’annessione della Crimea la misura era stata ventilata, il governo russo aveva annunciato una caduta potenziale del Pil fino al 5%. C’è da dire che dal 2014 la Banca centrale russa ha sviluppato un proprio sistema di pagamenti, il Mir, e Mosca potrebbe anche ammortizzare il colpo appoggiandosi al sistema transfrontaliero cinese, che raccoglie un centinaio di paesi. «L’estromissione dal circuito Swift finirebbe per spingere sempre di più la Russia tra le braccia di Pechino» commenta ancora Alessia Amighini, «senza contare le ritorsioni di Putin, che potrebbe lasciare l’Europa al freddo bloccando le forniture di gas naturale».

Un’azione del genere sarebbe poi un’arma a doppio taglio: le banche italiane e francesi (Unicredit e Société Générale in testa) sono esposte per oltre 30 miliardi di dollari in Russia e non potrebbero più incassare quei crediti. E la credibilità di Swift come intermediario affidabile sarebbe messa a rischio.

A sentire Washington, la madre di tutte le sanzioni è l’assalto al settore energetico: basti pensare che petrolio e gas naturale rappresentano circa la metà delle esportazioni russe e delle entrate del governo, e il rublo è fortemente correlato al prezzo del petrolio.

La mossa della Germania di sospendere la certificazione del gasdotto sottomarino Nord Stream 2 – su cui Angela Merkel ha intessuto le relazioni con il Cremlino negli ultimi anni – è senz’altro un segnale politico rilevante (quanto reversibile). Ma alla fine dei giochi a farsi più male sarebbe l’Europa, visto che il 38% del gas naturale proviene da Mosca. «Il problema non è superare la primavera, gli stoccaggi sono ancora pieni per il 30%» spiega Simone Tagliapietra, senior fellow del think tank Bruegel ed esperto di politiche energetiche, «ma in estate le riserve andranno riempite per far fronte al prossimo inverno. E come lo facciamo senza il gas russo? Con il GNL (gas naturale liquefatto, che si trasporta via nave ndr)? Sarebbe come lavare la macchina con lo champagne». Un paragone che chiarisce la goliardia twittarola dell’ex presidente ed ex premier russo Dmitrij Medvedev: «Benvenuti nel nuovo coraggioso mondo in cui gli europei pagheranno molto presto 2.000 euro per 1.000 metri cubi di gas naturale!».

Quanto all’impatto sulle casse moscovite, qualche miliardo in meno dal gas non sarebbe poi gran cosa. «Le entrate maggiori vengono dal petrolio, che è più difficile da sanzionare» continua Tagliapietra, «non servono gasdotti per trasportarlo, il mercato del petrolio è come un’unica grande piscina: se la Germania non lo compra, la Russia può spedirlo tutto in Asia con i container». A coronare il quadro, il prezzo del petrolio veleggia ormai verso i 100 dollari al barile e, secondo le stime, il Cremlino potrebbe finanziare la sua spesa pubblica per intero anche se il petrolio venisse venduto per soli 44 dollari al barile.

La morale della storia è che non c’è sanzione a costo zero e non è sempre chiaro quale parte subirà i costi maggiori, la leva dell’energia lo dimostra. L’altro lato della morale è che sarebbe meglio fare affari con partner più affidabili, specialmente quando in gioco c’è il riscaldamento delle nostre case.

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