Dosaggio zeroChi decide che cosa beviamo?

Quello che scegliamo di versare nel bicchiere non è solo frutto di una nostra scelta, ma spesso è determinato da mode, tendenze, decisioni di cantine ed enologi e anche dalla nostra età e dalla nostra evoluzione come bevitori

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Una tendenza dettata dalla produzione può modificare il gusto medio delle persone? È cambiato il gusto di chi beve o è cambiato il modo di fare il vino degli enologi che ci stanno portando a versare nel bicchiere qualcosa a cui prima non eravamo abituati? Abbiamo chiesto il parere di produttori, winemaker e patron di enoteche, per cercare di fare il punto sull’evoluzione del gusto. 

Ma partiamo dal contesto: tra gli addetti ai lavori si parla sempre più di bollicine non dosate, ed è proprio da qui che parte la nostra riflessione. Per realizzare un vino spumante (Se volete avere maggiori informazioni sui diversi metodi, li abbiamo spiegati qui) spesso si aggiunge un “liqueur d’expedition” (dosage) prima della tappatura definitiva. Questa pratica è andata via via diminuendo, e oggi tra gli intenditori si pensa che meno una bollicina è “dosata” meglio sia per il vino. Gli spumanti nature o pas dosé sono i preferiti del momento, almeno tra chi vuole fare la figura dell’intenditore.

Partendo da una degustazione di Satèn, vino spumante morbido e dosato, che in effetti ci ha lasciati perplessi per la sua eccessiva dolcezza, ci siamo chiesti se il pas dosé sia ormai la nuova frontiera delle bollicine o se in questa bolla di comunicazione e di fissazione ci siamo solo noi che di questo parliamo ogni giorno, avendo addirittura modificato le nostre preferenza al palato per assecondare questa tendenza.

Lucia Barzanò, proprietaria di Mosnel in Franciacorta ha le idee molto chiare in merito: «Penso che la risposta sia a metà fra le due ipotesi. Sicuramente il palato si evolve in base a quello che beviamo (e mangiamo). I vini più dolci, morbidi e dosati sono tipicamente preferiti dai “nuovi consumatori” che poi, acquisendo esperienza, vanno inevitabilmente verso prodotti più secchi. In questi anni penso che i vari corsi dì degustazione e la maggiore preparazione e consapevolezza nel consumatore medio e negli addetti ai lavori abbiano fatto decollare i consumi dei non dosati, secondo me è stata proprio un’evoluzione del gusto collettivo. Il Satèn è stato molto importante per la Franciacorta per “traghettare” per facilità di beva i consumatori di spumanti vari verso il Franciacorta, un metodo classico allora riservato ai brindisi di fine anno. Ha ancora una grande importanza per il territorio (per noi è il secondo prodotto in volumi); soffre un po’ per un disciplinare poco definito che lascia spazio a prodotti discutibili».

Anche per Joel Abarbanel, proprietario di Les Rouges e grande studioso delle dinamiche del vino, è una questione di esperienza: «Sono da sempre un fervido sostenitore non solo di un continuo cambiamento (notoriamente “a togliere”) del nostro palato ma anche e soprattutto di una naturale tendenza a fidarsi sempre più del nostro istinto corporale e naturale più passa il tempo. Mi spiego: quanto più bevi (e bevi cose diverse, che il mercato ma soprattutto la tua naturale propensione curiosa ti porta a bere) quanto più il tuo corpo si sintonizza con quello che più naturalmente gli aggrada, a livello sia di gusto sia di benessere (e non solo del vino). Inoltre, so che può sembrare naïf ma di sicuro il consumatore evoluto è più concreto e meno propenso a farti imbambolare rispetto a cinque anni fa, e oggi la sua sensazione più spontanea è quella prevalente. Alcuni vini super dosati erano imbevibili anche cinque anni fa, solo che ci facevamo molti più problemi a riconoscerlo perché dentro una bolla di conformità del gusto del periodo. Solo il tempo ci aiuta ad uscirne, nessuno escluso. Insomma, nel vino come nella ristorazione, architettura, vita, sta venendo fuori che il superfluo e l’artificiale non solo non servono, ma sono addirittura lesivi, e gli stessi enologi (essendo vecchi boomer) se ne sono resi conto, seppur con ritardo».

Gli fa eco Gianluca Ladu, patron di Vinoir, enoteca artigianale-naturale sui Navigli milanesi, punto di riferimento per i nuovi addicted del vino: «Il Satèn è considerato un prodotto di marketing degli anni ‘90, costruito pensando di andare incontro a un pubblico femminile, cercando di realizzare uno spumante setoso, con meno pressione e meno effervescenza. Qui da noi serviamo una nicchia di clienti che invece al contrario cercano la fittezza e la persistenza dell’effervescenza. Naturalmente anche nei Satèn dipende tutto dal dosaggio, e dalla produzione. È anche vero che ultimamente, e non solo nei vini naturali artigianali, si stiano affermando i non dosati: è un segno dei tempi, questa scelta ci fa capire che il cliente va verso vini meno trattati, meno “corretti” e il dosaggio nella spumantistica è l’artificio per eccellenza in cantina per far allontanare il vino dall’uva di origine. Di conseguenza i non dosati, i brut nature, sono senz’altro anche nelle produzioni industriali i più fedeli a un concetto di vino». 

E che ne dicono gli enologi, che i vini li fanno? Andrea Moser, mente, braccio e cuore di Kellerei Kaltern in Alto Adige ne fa anche una questione di età e di evoluzione: «Il gusto cambia a livello personale, dipende anche dalle mode, per qualcuno. È un’evoluzione gustativa direi, i bambini amano il dolce, crescendo si passa al salato, all’acido, anche all’amaro».

Samuel Cogliati, studioso del vino e probabilmente maggior esperto di champagne in Italia, editore con Possibilia, ci aiuta a comprendere meglio il problema: «I vini cambiano, e gli spumanti sono forse la tipologia di vino che più si plasma alle mode; ad esempio quella attuale per il pas dosé è una moda, spesso non supportata da elementi qualitativi sufficientemente concreti e solidi; il dosaggio negli spumanti è andato storicamente sempre decrescendo, probabilmente in parallelo alla riduzione dell’entusiasmo culturale per il sapore dolce. Anche se la Nutella e MacDonald’s avrebbero obiezioni in merito». Ma il punto è anche un altro: «I gusti cambiano: cambiano culturalmente, esperienzialmente, fisiologicamente (il nostro apparato neuro-fisiologico-sensoriale muta con l’invecchiamento). Io dieci anni fa andavo matto per cose che oggi mi dovresti costringere a bere con la forza. Non c’è nulla di preoccupante né sorprendente in tutto questo». Ma la tendenza, così chiara ed evidente tra gli addetti ai lavori e tra i wine lovers, è supportata davvero da una maggiore produzione di pas dosé o è solo suggestione? «Per il solo champagne, i dati 2020 (annata commercialmente anomala, ovviamente) parlano di 1,8% di volumi con un dosaggio inferiore al brut, ma temo che di quell’1,8% una grossa fetta (che non saprei quantificare) si riferisca agli extra-brut, dunque a champagne comunque dosati. Ragion per cui credo che gli champagne pas dosé possano costituire lo zero virgola». 

Conclude Dan Lerner, distributore di vini con la sua società e cultore della materia: «Senz’altro ora si bevono più pas-dosé perché c’è stata una evoluzione nei consumi: gli enologi seguono -sono costretti a seguire- i gusti e le preferenze dei consumatori, a costo di tenersi in cantina bottiglie e bottiglie fatte secondo i loro gusti ma che non piacciono a nessuno. Senz’altro i pas-dosé sono degli champagne/spumanti che per loro natura devono essere prodotti con uve eccellenti, in quanto non possono essere “aggiustati” con un dosaggio elevato per nascondere la loro pochezza. Tutto ciò premesso, il mercato dei pas-dosé è ancora una parte assai ridotta del mercato generale delle “bolle”, in parte per la difficoltà di produzione, ma ancor di più perché la maggior parte del pubblico vuole ancora bere prodotti più “rotondi”, più morbidi, più rassicuranti. Una evoluzione comunque c’è stata: in Francia gli champagne che andavano per la maggiore nella prima metà del ‘900 avevano un dosaggio elevatissimo, 50 e più grammi di zuccheri, mentre ora in ogni modo i dosaggi sono calati moltissimo perché il mercato è cambiato drasticamente». 

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