Nulla da dimostrareLa coraggiosa battaglia legale di Caster Semenya

La mezzofondista sudafricana vincitrice della medaglia d’oro ai Giochi di Londra e a quelli di Rio è ora impegnata a difendere la sua dignità e a ottenere giustizia, dopo che le è stata negata la partecipazione alle ultime Olimpiadi

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Questo è un articolo dell’ultimo numero di Linkiesta Magazine + New York Times Turning Points 2022 in edicola a Milano e Roma e ordinabile qui.

Il mio sogno era difendere i miei titoli olimpici nei Giochi di Tokyo del 2020, dopo aver vinto la gara femminile degli 800 metri sia nel 2012 sia nel 2016. Volevo partecipare un’altra volta alla competizione olimpica per procedere ulteriormente verso il mio obiettivo di diventare la più grande mezzofondista di sempre sugli 800 metri. Ma non ho ottenuto di poter gareggiare a Tokyo. Sono arrabbiatissima, triste e delusa che questa opportunità mi sia stata negata in base alle regole stabilite nel 2018 dalla federazione mondiale World Athletics e in base a un report del 2017 che è stato smentito subito dopo i Giochi di Tokyo.

La normativa istituita nel 2018 non faceva esplicitamente il mio nome ma l’obiettivo ero io. La nuova regola sostiene che una donna che è nata con un livello di testosterone più alto abbia un iniquo vantaggio competitivo rispetto ad altre atlete. Per poter competere avrei quindi dovuto assumere un farmaco per ridurre il testosterone. La notizia dell’istituzione di questa norma mi ha ridotto in pezzi. E mi ha fatto indignare.

Come donna, dovrei poter disporre del mio proprio corpo. Perché dovrei assumere delle sostanze che alterano l’equilibrio ormonale per poter semplicemente svolgere la professione che ho scelto? Dal momento che sono il punto più alto che gli atleti possano raggiungere, i Giochi olimpici spingono quelli che vogliono parteciparvi fino ai propri limiti mentali e fisici – con un costo personale spesso enorme. Il mondo si aspetta che gli atleti per vincere l’oro facciano dei sacrifici. La pressione è così straordinariamente forte che alcuni potrebbero cercare un maniera di ottenere un vantaggio sleale sui concorrenti. Ma io non ho ceduto a questa pressione.

So chi sono e non ho paura di parlare di ingiustizia – e non soltanto per me stessa, ma anche perché altri atleti non debbano vivere le stesse cose che ho dovuto affrontare io. Poco dopo i Giochi di Tokyo, il British Journal of Sports Medicine ha pubblicato una correzione allo studio del 2017 che aveva convinto World Athletics a bandirmi dalle gare. Questa rettifica affermava che i risultati degli studi sugli effetti che degli alti livelli di testosterone possono avere sulle prestazioni sportive delle atlete erano «esplorativi» e che «avrebbero potuto essere fuorvianti qualora si volessero suggerire inferenze causali».

Se i difetti dello studio fossero stati ammessi prima delle Olimpiadi, avrei potuto partecipare ai Giochi. Quando sono venuta a sapere di queste correzioni, la prima frase che ho detto ai miei avvocati è stata: «Ve l’avevo detto». I tribunali sono il luogo dove ora devo combattere le mie battaglie. Alcuni dei miei avvocati si sono offerti di prestarmi assistenza senza compenso, ma tutto questo ha prosciugato le mie risorse e ho bisogno di sostegno per continuare la lotta.

La mia prima sfida contro la normativa di World Athletics risale al giugno 2018, quando ho presentato una richiesta di appello al Tas, il Tribunale arbitrale dello sport che ha sede a Losanna, in Svizzera. Nell’aprile dell’anno successivo, il Tas ha emesso la sua sentenza: ho perso. In seguito a questo ho portato il mio caso alla Corte suprema svizzera, che ha l’autorità di revocare le decisioni del Tas. Nel settembre del 2020 i giudici si sono rifiutati di cambiare la sentenza e hanno semplicemente affermato che la sentenza del Tas non violava i principi fondamentali e ampiamente riconosciuti dell’ordinamento giuridico svizzero.

I miei avvocati mi hanno detto che abbiamo un altro asso nella manica: portare la sentenza svizzera alla Corte europea per i diritti dell’uomo. Lì la Commissione sudafricana per i diritti umani sosterrà, come parte in causa, la mia posizione, sostenendo che «non sia necessario nessun adattamento, nessuna negazione, nessun annullamento di se stessi». Ciò significa che le norme che mi obbligano ad assumere ormoni per abbassare i miei livelli naturali di testosterone e alterare il mio stato naturale sono una violazione della mia dignità di essere umano.

Se vinceremo presso la Corte europea per i diritti dell’uomo, la posizione di World Athletics si indebolirà ulteriormente. Voglio pensare che alla fine sarò davvero ascoltata. I miei legali dicono che il caso sarà probabilmente dibattuto nel corso del 2022, a Strasburgo. Benché io mi sia persa Tokyo, rimango a testa alta. Sono una sudafricana nera. Sono stata fortunata a nascere con un talento speciale. Ma senza ambizione, determinazione e fiducia in se stessi non si arriva da nessuna parte.

I molti ostacoli che ho incontrato mi hanno resa più forte: il loro superamento è uno degli elementi che ti rendono un grande atleta. Ho dovuto anche sopportare insulti e umiliazioni provenienti dal mondo esterno in cui si è discusso pubblicamente della mia identità. Di come mantenere la dignità e la speranza davanti alla prepotenza io ne so qualcosa. Ora il mio obiettivo è vincere la battaglia legale. Per me, come donna e come essere umano che combatte una feroce ingiustizia, una vittoria sarebbe dolce. Dolce come tutte le altre che ho ottenuto in pista.

© 2021 THE NEW YORK TIMES COMPANY AND CASTER SEMENYA

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