Gemelle diversePerché la Commissione blocca i fondi Ue all’Ungheria (ma non alla Polonia)

Bruxelles attiverà contro Budapest il meccanismo che lega l’esborso dei finanziamenti europei al rispetto dello Stato di Diritto. Il governo di Varsavia, che suscita analoghe preoccupazioni a Bruxelles, non sarà per ora colpito dalla procedura

LaPresse

L’Ungheria batte la Polonia nella gara a un non invidiabile primato, quello dell’unico Paese europeo soggetto al meccanismo di blocco dei fondi dell’Ue. Per entrambi gli Stati, la Commissione europea ha individuato casi di possibili violazioni che «mettono a rischio gli interessi finanziari dell’Unione», ma solo nei confronti di Budapest procederà per ora al passo successivo: l’attivazione della procedura che, se portata a termine, negherà al governo di Viktor Orbán i finanziamenti comunitari. 

Botta e risposta
La notifica formale che attiva ufficialmente il meccanismo di condizionalità arriverà al governo ungherese nei prossimi giorni, conferma il portavoce della Commissione europea a Linkiesta. L’annuncio era stato dato direttamente dalla Presidente Ursula von der Leyen al Parlamento di Strasburgo: una decisione necessaria perché il governo di Budapest non ha risposto in maniera soddisfacente alle 16 preoccupazioni sollevate dalla Commissione, soprattutto in merito alla corruzione dilagante nel Paese, che coinvolge anche la distribuzione dei fondi europei.

La risposta non si è fatta attendere: i ministri Gergely Gulyás e Judit Varga hanno accusato la Commissione di «punire i cittadini ungheresi» per il supporto espresso al partito di governo nelle recenti elezioni. Ma le prime conseguenze si sono sentite anche sui mercati, con il fiorino ungherese che ha perso in una giornata il 2% sull’Euro, riporta Bloomberg.

Come funziona il meccanismo di condizionalità
Il rischio per l’economia ungherese, infatti, è alto. Se la procedura prevista dal Regolamento 2092 del 2020 andrà fino in fondo, potranno essere congelati i fondi europei che spetterebbero al Paese: circa 40 miliardi di euro, compresi i 7,2 previsti dal Next GenerationEu.

La comunicazione formale attesa a Budapest individua un nesso effettivo tra la violazione di un principio dello Stato di Diritto in Ungheria e un danno o un rischio di danno alla gestione dei fondi europei. Tra il governo ungherese e la Commissione comincerà poi un dialogo che può durare dai tre ai cinque mesi e se l’esecutivo comunitario non è soddisfatto dell’esito del confronto, potrà proporre misure punitive, sospendendo determinate quote del budget del Paese.

Le misure devono essere «strettamente proporzionate all’impatto della violazione contestata sul bilancio dell’Unione» e vanno approvate dal Consiglio dell’Unione europea: l’autorizzazione è concessa con un voto a maggioranza qualificata, cioè con il sostegno del 55% degli Stati membri che abbiano almeno il 65% della popolazione europea. La votazione deve tenersi al massimo tre mesi dopo la presentazione delle misure da parte della Commissione.

È proprio questo criterio di voto a rendere lo strumento particolarmente efficace per l’Ue e particolarmente pericoloso per l’Ungheria: tanto che il governo di Budapest, insieme a quello polacco, ha prima provato in tutti modi a evitare l’adozione del meccanismo e poi presentato un ricorso alla corte di Giustizia europea per contestarne la validità, respinto lo scorso febbraio.  

Quando le decisioni del Consiglio vengono prese all’unanimità, invece, ogni Paese detiene di fatto un diritto di veto. Grazie a tale dinamica, da anni i governi di Polonia e Ungheria si difendono a vicenda da un’altra procedura: quella della «clausola di sospensione» prevista dall’Articolo 7 del Trattato sull’Unione europea, e attivata nei confronti della Polonia nel 2017 dalla Commissione e nei confronti dell’Ungheria nel 2018 dal Parlamento europeo.

Se portata a compimento, toglierebbe ai due Paesi il diritto di voto in Consiglio per un determinato periodo, ma è altamente improbabile che ciò accada: al momento rimane formalmente aperta, pur senza registrare sviluppi positivi nel dialogo tra Commissione e governi, come ha ammesso la commissaria ai Valori e alla trasparenza Věra Jourová nella recente audizione sul tema al Parlamento. 

Polonia salva (per ora)
L’Articolo 7 è uno dei punti in comune tra Polonia e Ungheria nel loro lungo confronto con le istituzioni europee. Gli altri sono le procedure di infrazione che la Commissione ha comminato a entrambe, le numerose risoluzioni dell’Eurocamera sulle violazioni in corso e una tendenza dei rispettivi governi ad accusare Bruxelles di «interferenza» nei propri affari interni. 

Budapest e Varsavia preoccupano allo stesso grado la Commissione per le violazioni dello Stato di Diritto, anche se nel primo caso il problema principale è la corruzione endemica, nel secondo la mancanza di indipendenza della magistratura rispetto al potere politico, come ha spiegato von der Leyen agli eurodeputati. 

Nel novembre 2021, entrambi i governi erano stati raggiunti dalla lettera che segnalava loro le rispettive carenze: nel caso dell’Ungheria si menzionavano le indagini dell’Ufficio anti-frode europeo (Olaf), le ingenti somme comunitarie versate ad amici e parenti di Orbán e i conflitti di interesse dei suoi ministri. Ma pure la questione dell’indipendenza della magistratura, problematica condivisa con la Polonia, a cui venivano rimproverate mancanza di imparzialità ed efficacia nei processi giudiziari, condizioni in grado di danneggiare gravemente la gestione dei fondi europei.

Il destino dei due Paesi dell’Est, tuttavia, al momento diverge: per la Polonia non è prevista nell’immediato l’attivazione del meccanismo di condizionalità. «Si tratta di due casi separati, con motivazioni differenti e procedure differenti», conferma la Commissione a Linkiesta, senza specificare se e quando replicherà la misura nei confronti dei polacchi e se la risposta di Varsavia alla lettera è invece ritenuta soddisfacente.

Sulla scelta pesa probabilmente un’attitudine più collaborativa da parte del governo polacco, che ha annunciato una legge per smantellare la Camera disciplinare per i giudici, uno dei punti della riforma della giustizia contestata da Bruxelles, e risolto un’annosa controversia con la Cechia pagando una compensazione da 45 milioni di euro.  

Tra le ragioni, però, c’è l’ipotesi di una lettura politica legate alla guerra in Russia. L’Ungheria è il Paese europeo più recalcitrante nell’imporre sanzioni al governo di Putin, ha condannato l’invasione ma non manda armi agli ucraini, è disposta a pagare in rubli il gas di Mosca e sembra fare di tutto per mantenersi estranea al conflitto. Orbán ha ricevuto al telefono i complimenti di Putin per la sua rielezione e il suo ministro degli Esteri ha perfino convocato l’ambasciatore ucraino, protestando contro gli attacchi ricevuti dall’esecutivo ungherese per la sua posizione equidistante. 

La Polonia, invece, sostiene la linea più dura possibile nei confronti dei russi, sia a livello economico che militare, e sta accogliendo oltre due milioni di profughi ucraini con generosità, mostrando in questo senso un’inconsueta sintonia con le istituzioni dell’Ue. Che, visto il momento storico, non sembra il caso di incrinare. 

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