Ancora luiOrbán sbaraglia l’opposizione e resta padrone dell’Ungheria

L’alleanza tra Fidesz e Partito Popolare Cristiano Democratico conquista il 53% dei voti e lascia alla coalizione opposta solo i seggi della capitale. Ma lo scontro tra il governo di Budapest e l’Ue è destinato a continuare

Non è bastata la «santa alleanza» di Uniti per l’Ungheria, composta da sei partiti di tutto lo spettro politico, né il «vento del cambiamento» che sembrava soffiare nel Paese, né gli auspici provenienti da mezza Europa. Viktor Orbán resterà Primo ministro d’Ungheria per i prossimi quattro anni, dopo aver ottenuto il suo quarto mandato presidenziale consecutivo, il quinto in totale.

La collaudata alleanza del partito di Orbán, Fidesz, con il Partito Popolare Cristiano Democratico (Kdnp) ha collezionato il 53% dei voti, che si traducono in 135 seggi sui 199 dell’Assemblea nazionale di Budapest. Una maggioranza solida e persino più ampia della scorsa legislatura e un’affermazione incontestabile nei numeri, al di là dei problemi di pluralismo e distorsione del panorama mediatico nel Paese che rendono ogni competizione elettorale sbilanciata a priori.

La vittoria assume contorni ancora più netti perché arriva contro un avversario mai così compatto e battagliero, una coalizione composta da sei partiti ungheresi di differente collocamento politico: la sinistra del Partito socialista (Mszp) e di Coalizione democratica (Dk), gli ecologisti di Lmp e Dialogo per l’Ungheria (Párbeszéd), l’estrema destra di Jobbik e i liberali di Momentum presentavano infatti un candidato congiunto, il sindaco della città di Hódmezővásárhely, Péter Márki-Zay.

L’opposizione multicolore ha retto solo nella capitale, dove i suoi esponenti hanno trionfato in 16 dei 18 distretti elettorali, ma nel resto del Paese il dominio di Fidesz/Kdnp è stato pressoché assoluto. Il 35% di voti complessivi raccolti da Uniti per l’Ungheria (Egységben Magyarországért) è di molto inferiore alla somma delle preferenze ottenuta dai vari membri della coalizione nella scorsa tornata, vicina al 47%. Una parte delle preferenze del 2018, probabilmente tra quelle di Jobbik, sono state sottratte da una nuova formazione politica, MiHazánk (La nostra patria), che ha guadagnato consensi durante la pandemia insistendo su posizioni anti-vaccinali.

«Questa non è solo la nostra vittoria. Il mondo intero riconosce che i conservatori in politica sono il futuro, non il passato», ha detto Orbán, nel discorso della vittoria pronunciato di fronte ai propri elettori. Secondo le prime analisi, sull’esito del voto non pare aver influito la mossa del governo di «accoppiare» alle elezioni parlamentari e presidenziali un controverso referendum su una legislazione che vieterebbe di mostrare ai minori qualsiasi contenuto che ritragga o promuova omosessualità e cambio di sesso. La maggioranza dei cittadini che si sono espressi ha sostenuto la posizione del governo, ma la consultazione non ha raggiunto la soglia necessaria del 50% ed è quindi nulla.

Ha pesato, invece, la guerra in Ucraina: Orbán avrebbe beneficiato di un ricompattamento dell’elettorato nei confronti del governo in carica che avviene solitamente nelle situazioni di crisi. La sua linea nei confronti della Russia ha evidentemente convinto i connazionali: il Primo ministro ungherese ha sì condannato l’invasione, ma ha anche ribadito la propria neutralità evitando l’invio di armi all’Ucraina e si è opposto all’ipotesi di bloccare l’importazione di gas russo.

Per questo posizionamento, Orbán era stato criticato apertamente dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che nell’ultimo collegamento con il Consiglio europeo lo aveva persino invitato a visitare un memoriale sulla Shoah di Budapest al fine di comprendere la tragicità dell’invasione in corso. Proprio Zelensky è stato menzionato nel discorso celebrativo di Orbán tra gli «oppositori» sconfitti, insieme al magnate ungaro-americano George Soros, ai «media internazionali mainstream» e ai «burocrati di Bruxelles», target abituali della narrativa del Primo ministro.

Lo scontro del governo ungherese con le istituzioni europee è infatti destinato a proseguire. L’Ungheria rimane sottoposta alla procedura dell’Articolo 7, che potrebbe portare a una sospensione del suo diritto di voto nel Consiglio europeo. Ma se questa ipotesi sembra difficile da concretizzare, perché richiederebbe il voto unanime degli altri 26 Paesi, gli altri fronti di scontro tra Budapest e Bruxelles sono più accesi.

La Commissione europea mantiene bloccati i 7,2 miliardi di euro che spettano all’Ungheria nel piano Next GenerationEu, temporeggiando sull’approvazione del Pnrr magiaro. E presto potrebbe procedere all’attivazione del meccanismo che vincola l’esborso comunitario al rispetto dello Stato di Diritto, congelando così altri fondi comunitari destinati al Paese. Dopo che la Corte di Giustizia dell’Ue ha respinto il ricorso presentato dal governo di Orbán (insieme a quello polacco) sullo strumento, l’esecutivo europeo sta valutando la misura, anche se per ragioni di opportunità politica ha evitato di metterla in atto prima delle elezioni.

In questo lungo confronto, Orbán rischia di perdere preziosi alleati: con lo scoppio della guerra, si è incrinato l’asse tra Polonia e Ungheria, Paesi determinati nel controbattere a Commissione e Parlamento europeo su temi come l’amministrazione della giustizia e i diritti civili, invocando il diritto a scelte nazionali in autonomia dall’Ue.

Ma il governo di Varsavia è tra i cosiddetti «falchi» nei confronti della Russia: vorrebbe dall’Ue il massimo delle sanzioni per Mosca e il massimo del supporto, anche militare, a Kiev. Il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki si è persino recato nella capitale ucraina, con gli omologhi sloveno e ceco. La linea dell’Ungheria non piace per nulla alla Polonia, ma nemmeno alla Repubblica ceca, e i due Paesi hanno appena manifestato il proprio disappunto boicottando una riunione dei ministri della Difesa dell’Europa centrale, poi cancellata dall’Ungheria.

Un problema in più per il nuovo Primo ministro in pectore di Budapest, il più longevo al potere dell’Unione europea, ma sicuramente non il più apprezzato fuori dai confini nazionali.

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