Il meccanismo di condizionalità che lega i fondi dell’Unione eruopea al rispetto dello Stato di diritto nei suoi Paesi membri è giuridicamente valido: lo ha stabilito la Corte di Giustizia dell’Unione europea, respingendo un ricorso presentato da Polonia e Ungheria lo scorso marzo.
Questo strumento potrebbe essere un’arma efficace a disposizione delle istituzioni comunitarie per contrastare la «deriva illiberale» contestata ai governi di Varsavia e Budapest. Ora spetta alla Commissione europea decidere di attivare il meccanismo rilevando una violazione: un passo di grande rilievo a livello politico, che il Parlamento auspica nell’immediato, ma che potrebbe invece richiedere tempi più lunghi.
Come funziona il meccanismo di condizionalità
Il regolamento che istituisce il meccanismo prevede una procedura da avviare nel caso in cui si verifichino, in uno dei 27 Stati membri, violazioni dello Stato di diritto che rischiano di compromettere la gestione del bilancio dell’Unione o i suoi interessi.
Secondo la sentenza della Corte, questa operazione può rientrare nelle competenze dell’Unione, che ha il potere di stabilire «regole finanziarie» sull’utilizzo del proprio bilancio.
La Commissione europea può procedere quando accerta un nesso effettivo tra la violazione di un principio dello Stato di Diritto che avviene in un Paese membro e un danno o un rischio di danno alla gestione dei fondi europei in quel Paese.
È una gamma piuttosto ampia di circostanze, che include ad esempio la mancata indipendenza della magistratura dal potere politico che la Commissione contesta alla Polonia o la corruzione endemica che rimprovera all’Ungheria. Ma anche frodi ed evasioni legate ai contributi comunitari o situazioni di discriminazione dei cittadini.
Una volta individuata una violazione, l’esecutivo comunitario deve notificarla allo Stato in questione, con cui inizia un dialogo che può durare dai tre ai cinque mesi. Se la Commissione non è soddisfatta delle risposte ottenute, può proporre misure punitive, sospendendo determinate quote del budget che spetterebbe al Paese.
Queste misure devono comunque essere «strettamente proporzionate all’impatto della violazione contestata sul bilancio dell’Unione», ha sottolineato la Corte, e vanno approvate dal Consiglio dell’Unione europea. L’autorizzazione a imporre le sanzioni è concessa se i rappresentanti degli altri Paesi la votano a maggioranza qualificata, cioè con il sostegno del 55% degli Stati membri che abbiano almeno il 65% della popolazione europea.
Il criterio di voto non è un dettaglio da poco: in molti altri casi le decisioni del Consiglio vengono prese all’unanimità, cosa che concede di fatto a ogni singolo Paese il diritto di veto. Grazie a questa dinamica, ad esempio, i governi di Polonia e Ungheria si supportano reciprocamente contro la procedura prevista dall’Articolo 7 del Trattato sull’Unione europea, la cosiddetta «opzione nucleare», che se portata a compimento toglierebbe loro il diritto di voto per un determinato periodo.
Proprio la dinamica di approvazione, quindi, rende particolarmente “pericoloso” il meccanismo di condizionalità per Varsavia e Budapest. I due governi si sono prima opposti alla stipula del regolamento (ma sono stati messi in minoranza dagli altri Paesi), poi hanno minacciato di bloccare l’intero bilancio europeo del periodo 2021-2027 per farlo saltare e, infine, hanno proposto ricorso alla Corte di Giustizia Ue, sostenendo che travalicasse i limiti e le competenze dell’Unione.
Polonia e Ungheria, del resto, rischiano grosso, essendo due «beneficiari netti»: Paesi, cioè, che ricevono dal budget comunitario più di quanto versano. Soltanto i fondi di coesione, destinati a ridurre il divario economico fra le regioni dell’Unione, valgono oltre 75 miliardi di euro per i polacchi e 22 per gli ungheresi. Le sovvenzioni richieste tramite i piani di ripresa resilienza ammontano rispettivamente a 23,9 e 7,2 miliardi, ma la Commissione europea non ha ancora approvato nessuno dei due.
Anche per questo le reazioni alla sentenza sono state immediate: «È un giorno buio per l’integrazione europea e il rispetto dei diritti dei suoi Paesi. Con una sentenza illegittima, la Corte ha modificato i Trattati dell’Unione», ha scritto su Twitter il ministro della Giustizia polacco Zbigniew Ziobro.
Sulla stessa linea l’omologa ungherese Judit Varga, che parla di «abuso di potere da parte di Bruxelles» (anche se la Corte di Giustizia ha sede in Lussemburgo). Di recente il primo ministro ungherese Viktor Orbán aveva persino accusato la Corte di Giustizia di prendere «decisioni politiche» al posto dei governi nazionali. È molto probabile che dopo aver provato a contestare legalmente il meccanismo in sé, Polonia e Ungheria si oppongano per via giudiziale anche alle singole misure sanzionatorie che potrebbero essere adottate.
Attivazione senza fretta
La Commissione europea al momento non sembra premere sull’acceleratore per attivare la procedura. Al di là della promessa di Ursula von der Leyen di «agire con determinazione» e dell’annuncio di imminenti «linee guida per chiarire ulteriormente come verrà applicato il meccanismo», resi noti subito dopo la sentenza, alcune considerazioni di carattere politico potrebbero posticipare l’azione dell’esecutivo comunitario.
Secondo alcune analisi, tra cui quella dell’europarlamentare dei Verdi/Alleanza Libera per l’Europa Daniel Freund, a incidere sull’atteggiamento della Commissione sarà la posizione dei governi nazionali, in particolare quelli di Germania e Francia. Di certo i commissari si muoveranno soltanto con la ragionevole certezza di ottenere il supporto dal Consiglio nell’eventuale votazione delle sanzioni, come ha confermato al quotidiano Politico uno dei suoi funzionari.
Uno scenario che dipenderà dalle violazioni contestate, ma che in linea di massima non sembra difficile da ottenere: Germania, Francia, Belgio, Danimarca, Irlanda, Spagna, Lussemburgo e Paesi Bassi sono intervenuti nella causa legale intentata da Polonia e Ungheria, difendendo l’istituzione del meccanismo, e alcuni di questi governi hanno più volte espresso la necessità di proteggere i valori dell’Unione. Attorno a questo nucleo di Paesi più intransigenti si costruirà la maggioranza favorevole alle sanzioni.
Altri commentatori europei, come il noto professore di diritto comunitario Laurent Pech, stimano che la prima «vittima» del meccanismo possa essere l’Ungheria. In questo caso, però, la situazione è particolarmente delicata perché nel Paese si terranno le elezioni il prossimo 3 aprile e una decisione precedente a questa data potrebbe essere letta e interpretata dal governo in carica come un tentativo di interferenza nella campagna.
Il pressing del Parlamento
A spingere per un’attivazione immediata è sicuramente il Parlamento europeo, che ha organizzato un dibattito sul tema proprio il giorno dell’uscita della sentenza, con la speranza di esortare la Commissione a procedere. La presidente Ursula von der Leyen ha annullato la sua presenza in aula, nonostante fosse già a Strasburgo, dove in mattinata aveva partecipato a una discussione sulla minaccia di invasione russa in Ucraina.
Al suo posto c’era il commissario al Bilancio Johannes Hahn, con cui gli eurodeputati non sono stati teneri. «Agite ora», hanno attaccato molti membri dell’Eurocamera, tra cui la presidente del gruppo dei Socialisti e Democratici Iratxe García Pérez, secondo cui l’Europa si trova in una situazione inimmaginabile solo pochi anni fa, con alcuni Stati Membri che si stanno trasformando in regimi autocratici.
«Lo Stato di Diritto è la base su cui sono costruiti i nostri trattati ed è fondamentale che gli Stati aderiscano ai trattati che hanno firmato al momento di aderire all’Unione europea», ha ribadito in una nota la presidente Roberta Metsola, sostenendo una posizione molto chiara dell’Eurocamera, che lo scorso ottobre aveva persino intrapreso una causa legale contro la Commissione, accusandola di temporeggiare sull’applicazione del meccanismo. Considerando che tutta la procedura richiede circa nove mesi, dalla segnalazione di una violazione una sanzione effettiva, non c’è troppo tempo da perdere.