Brettati Il vino naturale è un’invenzione radical chic?

Quando anche uno dei consorzi che riunisce i produttori di vini non convenzionali si pone il dubbio sulla strada presa dal settore, in grande crescita ma dalla qualità altalenante, è il momento di farsi venire qualche sospetto, e di riflettere su questo fenomeno. C’è più storytelling che sostanza?

Viniveri è un consorzio che promuove una manifestazione dedicata ai vini che partono da un presupposto legato alla natura. Come leggiamo sulla loro presentazione: «Quanto stabilito non tratta metodi “bio” o “non bio”, ma indica semplicemente le azioni che permettono a una produzione di esprimersi pienamente e raggiungere l’obiettivo di ottenere un vino in assenza di accelerazioni e stabilizzazioni, recuperando il miglior equilibrio tra l’azione dell’uomo e i cicli della natura. Questa, in sintesi, la finalità per cui il Gruppo Viniveri intende lavorare».

Il presupposto è complesso per un non esperto, perché in Italia una definizione di “vino naturale” non esiste, e anche il termine stesso è da più parti contestato. Parliamo, generalmente, di vini che usano il minor intervento umano possibile, in vigna e in cantina, e dovrebbero restituire nel bicchiere la più pura e autentica espressione delle uve e del terroir da cui provengono. Ma… c’è un ma. Negli anni questi vini, che fino a 10, 15 anni fa erano da impallinati addetti ai lavori, nell´ultimo periodo sono usciti dalla nicchia e stanno diventando sempre più di moda. Più diventano di moda, più i produttori si moltiplicano – spesso anche improvvisandosi e pensando che il “non interventismo” significhi non conoscenza – e più il marketing prende il posto della sostanza, più i consumatori li cercano, senza forse un’autentica preparazione per capirli, e soprattutto per capire se la scelta è mossa da una effettiva bontà del prodotto o più dallo storytelling di sostenibilità e presunta “naturalità” che li accompagna.

In Francia, dove il vino è una cosa molto seria, sono corsi ai ripari prima di noi, e la definizione l’hanno trovata: intendersi sui significati delle parole è il primo passo per comprendere e scegliere con cognizione di causa. Il Syndicat de Défense des Vins Nature a febbraio 2020 è riuscito a vedersi riconosciuta ufficialmente dal governo francese la certificazione “Vin méthode nature”. Alle certificazioni biologica (l’unica certificazione riconosciuta a livello europeo) e biodinamica si aggiunge quindi per i cugini quella francese del Vin méthode nature.

Quali sono le regole da rispettare per loro? In sintesi: i vini devono essere realizzati solo con uve da agricoltura biologica certificata raccolte manualmente, nessun processo traumatico deve essere usato in cantina (filtrazioni, osmosi, pastorizzazioni), si possono usare solo lieviti indigeni, e non sono consentiti i solfiti prima e durante le fermentazioni.

In Italia ci sono regole per il “vino naturale” di associazioni come Vinnatur o Vini Veri, che dettano dei criteri ai vignaioli che vogliano far parte di questi gruppi. La charte del Vin méthode nature è invece un passo verso una legislazione del “vino naturale”. Ma può un movimento di per sé nato libero e indipendente essere incasellato in un regolamento? Dall’ultimo post comparso su profilo instagram di Viniveri, probabilmente sì. E se è proprio lo stesso mondo del vino naturale a richiedere un reset del settore, è forse arrivato il momento di analizzare meglio quello che è successo e provare a capire se ci siamo fatti sedurre da un’idea romantica e libertaria, che ci riportava al “vino del contadino” e ci faceva pensare di essere visionari e non mainstream nel bere vini contrari alle regole costituite, spesso con sentori non convenzionali e inconsueti, per non dire “puzze” che sono per anni state considerate un plus e non un difetto. 

Che cosa ne pensa chi ha fatto del vino una missione e ha studiato per realizzarlo nel modo più corretto possibile? Andrea Moser, Kellermeister di Cantina Kaltern in Alto Adige è un tecnico, e si definisce un creatore di vino “buono“, non parlando di gusto o piacevolezza, ma utilizzando questo termine nel suo significato più ampio e con una visione che vada al di là del convenzionale. Di sicuro non è fermo sulle sue idee, è anzi sedotto dalle nuove e antiche pratiche, che usa per realizzare i suoi vini, mescolando con abilità, competenza e creatività e cercando il minimo intervento possibile: «Il manifesto di Viniveri mi ha fatto riflettere sulla gravità della situazione che è stata creata da anni di vini “naturali” senza controllo e a volte senza vergogna. Sono il primo a dire che il vino si può fare con pochi, a volte nulli, e ragionati interventi viticoli ed enologici. Ma dico anche spesso che “se si vuole fare meno, bisogna sapere di più e controllare meglio”. E poi, partiamo da un presupposto: il vino “naturale” non esiste! Esiste il vino prodotto con ottime e rispettose buone pratiche agronomiche (biologiche, biodinamiche e convenzionali) e tanta conoscenza e controllo in cantina, stando attenti ad accompagnare il vino in bottiglia perdendo il meno possibile di quella famosa qualità che la natura (quella vera) ci ha regalato. Cerchiamo di cogliere il buono, l’utile e l’interessante da ogni tipo di conduzione, sia essa convenzionale, biologica e/o biodinamica e cerchiamo di trovare un punto d’incontro per creare un sistema veramente sostenibile di produzione del vino, che sia sano, certo, ma che sia soprattutto buono».

E che non faccia male alla salute, perché anche questo è un tema, quando parliamo di un alimento. I vini naturali possono fare male soprattutto se sono fatti da persone impreparate e senza studi enologici alle spalle. Fanno male perché quando si fermenta senza controllo ci sono molti ceppi di lieviti, alcuni anche inutili o dannosi, mentre l’unico lievito che serve fondamentalmente è uno, il Saccharomyces Cerevisiae. Se non c’è controllo e analisi si possono sviluppare tante sostanze non piacevoli e che compromettono la stabilità e la piacevolezza del vino. Tra le peggiori deviazioni ci sono le ammine biogene e le alte concentrazioni di acido acetico. Sapere quello che si fa, o capire che cosa si può non fare diventa quindi indispensabile per produrre vini buoni ma è fondamentale quando vogliamo fare vini soprattutto sani. Ricordiamo che le ammine biogene, alcune delle quali sono insapori, sono considerate responsabili di diversi problemi, fra cui palpitazioni, dolori addominali e mal di testa, possono essere causa di intossicazioni alimentari e possono dare effetti simili alle reazioni allergiche. Nel vino “buono“ la loro concentrazione è bassissima e a volte anche nulla, comunque al di sotto della soglia critica, ma in accumulo con altri prodotti possono essere comunque dannose. 

E danni a parte, non staremo forse snaturando il naturale proprio perché alcuni di questi vini sono ormai fatti di cliché, tipo l’ossidazione o la macerazione portate all’estremo, e quindi diventano – come i convenzionali – tutti identificabili con il mezzo tecnico con cui sono fatti e per nulla aderenti al territorio di cui si ergono difensori? 

Questa ostinata e contraria ossessione verso il naturale non ci porterà all’opposto di dove vorremmo arrivare? Dalle parole di un consumatore come l’architetto Luca Pedrotti, parrebbe proprio di sì, e non solo nel mondo del vino: «Da ignorante ma appassionato amante del vino, che ha avuto la fortuna di poter degustare vini spiegati da esperti e amici produttori, sono assolutamente d’accordo con Moser. E un po’ ci vedo quelli che nel mio settore pensano di fare costruzioni bio e non impattanti per la natura che mi fanno sospirare, così come quelli che parlano di vino totalmente naturale… La cosa che più mi affascina del mondo del vino è proprio la figura dell’enologo, un professionista in grado di unire la natura a una conoscenza dell’uso delle tecnologie. Sono loro gli architetti del vino, senza l’enologo non ci può essere una visione olistica di tutti gli aspetti che portano ad un vino, non può esserci un progetto seguito dalla vigna fino alla bottiglia. L’enologo è l’unica figura in grado di unire la conoscenza della natura alla conoscenza della chimica e della tecnologia che permette di tirar fuori il meglio dalla natura. Le posizioni estreme, come quelle dei vini totalmente bio, in ogni campo credo siano dannose. Ovunque serve un giusto equilibrio tra natura e uomo inteso come conoscitore della tecnica. Ormai nel vino, ma anche in architettura, la forma predomina sulla sostanza. Uno dei maestri dell’architettura, Louis Sullivan, il maestro di Frank Lloyd Wright, l’inventore dei grattacieli, ha fatto della frase “la forma segue la funzione” il credo del suo lavoro. Ogni volta che tiro una riga penso a questa frase e sono convinto che questo concetto, declinato nel vino, sia quello che distingua il bravo enologo da quello mediocre. La qualità deve essere individuata nella sostanza, perché se la sostanza è eccellente, di conseguenza anche la forma lo è».

Ma il manifesto com’è visto da chi ha sempre promosso il vino naturale e ne ha fatto una professione, aprendo in tempi davvero non sospetti, più di dieci anni fa, una delle prime enoteche milanesi dedicata esclusivamente a questo tipo di prodotti e da sempre cerca di spiegarlo ai nuovi consumatori? Gianluca Ladu ha riflettuto a lungo sulla questione e si pone un dubbio sulla potenziale strumentalizzazione di questo testo da parte di chi ha sempre criticato se non denigrato questo movimento: «È un tema centrale da anni nel dibattito tra noi appassionati di vino genuino. Siamo d’accordo con quanto esplicitato nel manifesto: la competenza prima di tutto. Il vino va fatto bene, va fatto cioè con sapienza, cura, competenza. Soprattutto quello genuino, per definizione più difficile da fare, proprio perché nel suo processo di creazione, dalla vigna alla cantina, sono esclusi tutta una serie di additivi, correttivi, coadiuvanti. Non possiamo assolutamente derogare su questi aspetti, e quindi non possiamo esaltare (pur ribadendo che bere un vino è vivaddio esperienza altamente soggettiva) un vino quando oggettivamente è caratterizzato da evidenti o macroscopici difetti probabilmente (anche) legati a incuria e a situazioni un po’, perdonami il termine, naïf, di incompetenza o di approccio appunto non sapiente, non consapevole, dal campo alla cantina. Siamo d’accordo che un vino genuino (termine che preferisco sempre più a quello di vino naturale) eccessivamente difettato e quindi non ‘buono’, può paradossalmente ‘tradire’ quel territorio verso cui siamo certi vada invece tutta la passione e l’impegno produttivo del piccolo artigiano. Il territorio cioè, rischia di non essere adeguatamente raccontato con un vino genuino ‘cattivo’ esattamente come accade con tutti i vini convenzionali, i quali con tutte le correzioni e ‘lavorazioni chimico-tecnologiche, dal campo alla bottiglia, certamente non hanno nessun legame chiaro, espressivo, diretto, con la terra in cui nascono. Affermato e condiviso ciò, avanzo però un piccolo (grande) timore, legato alla potenziale strumentalizzazione che potrebbe essere fatta di quanto contenuto nel manifesto. Intendo dire che mi spiacerebbe se questo testo diventasse un strumento maliziosamente male interpretato nelle mani di chi denigra tout court i vini genuini da anni. Denigra con fastidio crescente come crescente (per fortuna) è a mio avviso la qualità di quanto viene prodotto come vino genuino in Italia ed Europa da anni. Sono sicuro che invece l’intento di Sangiorgi o ViniVeri fosse unicamente quello di dare una ‘sferzata’ in chiave cura e competenza a tutti i vignaioli nel mondo del vino genuino, anche a quelli che stanno cercando con fatica e passione la loro strada espressiva. Spero quindi che questo manifesto non diventi uno strumento nelle mani di chi il vino naturale, magari per questioni estetiche o di facciata più che di sostanza lo frequenta, ne parla, lo vende, lo racconta o cerca di raccontarlo, ma non lo ama. Non deve passare il concetto che per fare il vino buono occorre ‘correggere’, questo proprio no. Dobbiamo essere chiari su questo: i vini genuini sono una cosa, i vini convenzionali un’altra. Non esistono ‘zone grigie’ o possibili sovrapposizioni di metodo o fattura. Sono due mondi diversi, due gusti diversi, da chi li fa a chi li beve. Trovo sbagliato il solo pensiero che si possa avvicinare (anche solo parzialmente) la composizione o il giudizio di un vino genuino a quello di un vino convenzionale. Ciascuno di noi, nell’esercizio della sua sincera soggettività ricerchi, beva, ami il vino che preferisce. Certamente, mi permetto di ribadirlo a chiusa di questo mio intervento, bere vino genuino o naturale credo sia un atto, un esercizio umanistico e non tecnico o tecnologico. Se mi perdoni la metafora, non ci si approccia ad un bicchiere di vino genuino col camice bianco, il taccuino, il pennino. I vini genuini sono belli (e buoni) proprio perché vivi e mobili, anche nei pochi minuti o decine di minuti che separano l’apertura di una bottiglia dalla sua completa consumazione. Figuriamoci le differenze tra bottiglia e bottiglia o stagione e stagione. Questo insieme di sensazioni cangianti, spigoli, sfumature (che sono l’essenza del vino vero e non certo difetti) rende ogni nostra esperienza di consumazione del vino diversa e unica. Ecco perché approccio umanistico: il vino genuino ci piace, ci emoziona ogni volta in modo diverso e rinnovato proprio perché ricerchiamo con lui una relazione sensibile, fatta anche di ascolto e attesa, di sentimento e predisposizione paziente e consapevole. Sta qui, a mio avviso, tutto il bello del bere vino naturale, per chi li ama con sincerità e come noi non ne può fare a meno. Siamo d’accordissimo quindi, che servano competenza, cura, pulizia, sapienza nel fare un prodotto agricolo altamente artigianale proprio perché, non usando nessuna scorciatoia, si tratta di un prodotto fragile e molto più complesso da elaborare (bene) di un vino convenzionale. Ma la genuinità va preservata perché è l’unica strada per permettere l’espressione del territorio, della tradizione antropologica di un luogo, della vitalità del vino. E quindi, alla fine, del piacere di chi li ricerca e beve». 

Ma abbiamo mai pensato a che cosa c’è di davvero naturale in un vigneto, che è un sistema intensivo di allevamento? Possiamo cercare di riportarlo il più possibile vicino ad un organismo naturale, ma se lasciato davvero libero diventerebbe in poco tempo una sorta di giungla, visto che la vite è in sostanza una liana e non darebbe di per sé uva qualitativamente atta a produrre vino. Per gestirlo al meglio senza chimica bisogna avere conoscenze profonde. E in ultima analisi, se volessimo essere davvero “naturali”, invece di aumentare gli impianti dovremmo lasciare intatte alcune foreste e boscaglie fra i nostri vigneti per aumentarne la biodiversità e assorbire la co2 che produciamo. Perché forse, come ribadisce Moser, la verità sta comunque nel mezzo e nel buon senso: «Ovvio che questo sarebbe meno sostenibile a livello economico, soprattutto in una zona come l´Alto Adige in cui la terra scarseggia. Ma bisogna sempre trovare il giusto compromesso fra utile, giusto, buono e sostenibile, per l´uomo e per la natura». E forse la parola che più di ogni altra dobbiamo sottolineare è compromesso: perché è qui che si giocano la maggior parte delle vicende produttive umane. Al di là delle polemiche.

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