Quando pensiamo al Giapponese e alla cultura dei suoi abitanti, vi associamo concetti quali il rigore, la pulizia, il rispetto, la precisione, il minimalismo: e tutti questi aspetti si ritrovano – con sfumature diverse – nella cucina tradizionale. Se andiamo a ripercorrere quella che è stata la storia dei popoli, dalle migrazioni e delle contaminazioni tra razze diverse, idiomi, culture, scopriamo che verso la fine dell’Ottocento, il Sud America è stato destinazione prescelta di molte famiglie e giovani orientali. Cinesi, giapponesi, coreani hanno portato sulla costa americana così come in Perù, Cile, Brasile tecniche, sapori, manualità, tipiche della tradizione del ramen, del pesce crudo, certe marinature o laccature, l’utilizzo della soia in più preparazioni e condimenti. In territori già di per sé così floridi di prodotti e tradizioni, quali Brasile e Perù, questa contaminazione ha portato la cucina ad arricchirsi in colore, consistenze, intensità, cotture appena accennate o prolungate creando uno stile di cucina ben preciso. La cucina nikkei è quella che frettolosamente viene definita come scuola nippo-brasiliana / peruviana / sudamericana e che in realtà ha una storia di lunga data e dei rappresentanti autorevoli. Gli immigrati giapponesi in Perù sono oggi più di sessantamila e questo spiega come mai questo paese – una delle destinazioni gastronomiche più incredibili del pianeta – sia stato proprio la culla della nascita e dello sviluppo dello stile nikkei.
Poco dopo la prima guerra mondiale nacquero molti nuovi ristoranti dove a fianco di una cucina prettamente creola e speziata, i nuovi abitanti iniziarono a inserire varianti e tocchi orientali, tra cui anche molto pesce. In quel periodo i peruviani non erano grandissimi mangiatori di pesce, che era destinato a pochi e molto spesso fritto o marinato nel lime. Mitsuharu Tsumura – chef patron di Maido a Lima è stato definito come il più grande chef nikkei attivo – racconta come il polpo, fino a cinquant’anni fa, non lo mangiasse nessuno. Anzi, i pescatori lo buttavano via. E i giapponesi, a quel punto, lo usavano come potevano. La stessa storia si ripeteva per anguille, calamari, lumache, alghe, tonno, gamberi e persino per le cozze, considerate cibo per poveri. «Il contrasto è nel tono generale, la cucina peruviana è hard rock, forte, piccante, vibrante. Quella jap è musica classica, più sottile, delicata e dedicata al prodotto» si legge in una sua dichiarazione. Dove possiamo ritrovare e provare con il nostro stesso palato il risultato dell’incontro di questi due popoli, di due culture così distanti tra loro ma che in qualche modo hanno trovato punti di contatto tra tecniche, ingredienti, stili? Azotea – che in spagnolo significa terrazza – è il nuovo e ambizioso progetto di due giovani veterani del mondo della ristorazione, Matteo Fornaro e Noemi Dell’Agnello. Complici nella vita così come sul lavoro, i due condividono una passione verace per il sud America, la cultura tropicale, quella Tiki e i differenti stili di cucina connessi: peruviana, messicana, giapponese, brasiliana, caraibica. Dopo anni a gestire un piccolo bar a Santa Teresa di Gallura – dove la proposta era già articolata in cocktail e tapas – Noemi e Matteo hanno deciso che era arrivato il momento di scommettere su di un progetto più ambizioso, dove poter investire il proprio know how e presentare finalmente al pubblico italiano la cucina nikkei. E non solo: «Ci teniamo molto a specificare che siamo un cocktail restaurant e non un ristorante con cocktail bar. Questa è una differenza sostanziale per noi sia per il tipo di percorso professionale che abbiamo fatto, che ci ha visti impegnati in prima linea con la miscelazione, sia per collocarci in un segmento di offerta che non è limitato alla ristorazione pura. Crediamo fortemente nella possibilità di concepire un drink al pari di un bicchiere di vino e nella sua capacità di esaltare – quando pensato in pairing – le caratteristiche di una ricetta o dei singoli ingredienti» racconta Fornaro.
Azotea è un ristorante intimo, con muri lasciati grezzi e un design di piante e dettagli piuttosto immersivo dove, grazie alla cucina di Alexander Robles, potete capire voi stessi come lavora il leche del tigre nel ceviche, che gusto hanno le patate viola fuori e bianche dentro molto farinose tipiche delle alture peruviane, che gusto hanno l’aji amarillo o l’aji panca, come si fa un caldo de gallina. Come cambia la consistenza del pesce crudo tra un sashimi e un tiradito, quanto è importante che il mais sia choclo e non tradizionale, capirete anche quanto il coriandolo è assolutamente determinante e imprescindibile su certi piatti.
E visto che il wine pairing è qualcosa che possiamo provare sempre, l’idea è che vi lasciate sedurre da un percorso degustazione accompagnato da piccoli sips. Ovvero mini drinks studiati appositamente in accompagnamento alle portate e tutti low abv, così riuscite ad arrivare fine alla fine alzandovi ancora dalla sedia! Non c’è limite nella ricettazione nemmeno in ambito cocktail: dal pisco al mezcal passando per gin e chachaça servendosi di tanti ingredienti più tradizionalmente connessi al mondo cucina: funghi, peperone, yuzu, leche de tigre, tabasco, cocco, banana. Drink studiati non da bere singolarmente – nella carta cocktail infatti ci sono proposte diverse – ma ideati per innestare un’esperienza nell’esperienza, una rielaborazione liquida della complessità che la tradizione peruviana e giapponese riportano nei piatti. «Presentare questo concept in una città come Torino è una doppia sfida. Non solo per la tipologia di cucina – che rimane ancora sconosciuta alla maggior parte del pubblico anche quello più “foodie”– ma proprio per il tessuto urbano che resta tendenzialmente più conservatore rispetto ad una più internazionale Milano» ci raccontano. Al di là della cura dei piatti, del servizio, dell’esperienza nella sua totalità, qui si viene per vivere – con eleganza – quella dimensione di evasione e distacco dalla realtà tipica dei luoghi esotici e tropicali. Perché sempre di più, uscire a cena non significa unicamente mangiare bene. Questo ormai – specialmente in determinati contesti – lo si da quasi per scontato. Quello di cui ci nutriamo veramente attorno a un tavolo sono sensazioni, profumi, emozioni, stupori che vanno a comporre la ricetta segreta – e ogni volta diversa – di un’esperienza unica nel suo genere. E Azotea, in questo, è un esempio calzante e coerente di puro escapismo.