Simone Bemporad, Scopo e profitto
Un’impresa deve senza dubbio fare profitti, a meno che non sia esplicitamente senza scopo di lucro: la questione è se il profitto sia davvero il suo unico scopo (profit as purpose), se invece lo scopo sia diverso dal profitto ed entrambi rappresentino gli obiettivi che si pone (purpose and profit), o infine se il profitto si possa raggiungere attraverso il perseguimento di uno scopo (profit through purpose o purpose as profit). Tenendo bene a mente una domanda: in che cosa consiste l’intuizione che dà vita a un business di successo, la scintilla da cui tutto ha origine? Il profitto, come un termometro al contrario, misura la salute di un’azienda. Se il suo valore è molto basso indica uno stato di malessere. Tuttavia nel Dna di un’impresa non c’è semplicemente il profitto, ma anche il desiderio di soddisfare un bisogno, o di rispondere a una richiesta – si propone, insomma, uno scopo, un purpose, che ovviamente non deve confliggere con ragioni sociali, ambientali ed etiche. Perché possa essere realizzato serve un’azienda sana, che faccia profitti, e così facendo si assuma le proprie responsabilità nei confronti della società. […]
Il passo ulteriore rispetto alla creazione di valore condiviso (shared value) è ragionare in termini di valore intrinseco (embedded value), dove l’effetto positivo per tutti gli stakeholder non deriva da una corsia aggiuntiva al percorso di un’impresa, dall’espansione del «bacino complessivo di valore», ma nasce a monte, quando si compiono le scelte di business. Perché allora guardare all’utilità sociale dell’impresa solo come effetto collaterale, ancorché positivo? Occorre superare la convinzione che ciò che genera profitto è business e ciò che non lo genera è sostenibilità. Com’è stato detto, un imprenditore fonda un’azienda perché ha individuato un bisogno non colmato (o non colmato in modo ottimale). Sono poche quelle di successo il cui fondatore si sia svegliato una mattina chiedendosi: «Come posso fare un sacco di soldi?». Le imprese non nascono come alternativa a una puntata al lotto. Ecco, poiché è il bisogno, e non il profitto, la molla che fa scattare l’intuizione dell’imprenditore, credo che oggi sia compito dei Consigli di amministrazione e del management occuparsi non solo della salute e della solidità dell’azienda in ottica contabile, ma anche del suo sviluppo, fedeli all’idea alla base della sua fondazione. Non si tratta più di valore condiviso, ma appunto di valore intrinseco, embedded nell’attività stessa. Accrescerlo, aumentare le dimensioni della «torta» da dividere è la priorità di un’impresa: si creano innovazione, profitto e benessere diffuso comportandosi eticamente e responsabilmente nei confronti della società, della comunità in cui si opera, del contesto socio-ambientale in cui si agisce.
Approfittare del bene comune
La responsabilità sociale d’impresa è importante perché definisce un orizzonte etico per le decisioni e le azioni degli amministratori, ma è vero anche che spesso è intesa come attività sussidiaria, esterna al core business e quindi non sufficiente a creare quell’interdipendenza necessaria a stabilire un nesso fra scopo e profitto. C’è sempre il rischio che i buoni propositi restino lettera morta o non siano radicati nelle priorità di una società. La sostituzione di principi come la responsabilità sociale d’impresa o di indicatori Esg con il più complesso e ampio concetto di sostenibilità può determinare una svolta nell’approccio a questi temi.
Da parecchi anni la sostenibilità è entrata a far parte della configurazione delle aziende, in forma sempre più strutturata e legata al core business. È interessante notare che, se fino a pochi anni fa la questione era considerata inerente alla comunicazione di un’azienda, parte dell’immagine che quest’ultima intende trasmettere di sé attraverso le relazioni sulle politiche adottate, da un po’ di tempo ha assunto un ruolo centrale nelle strategie aziendali. La sostenibilità è diventata una componente a pieno titolo della compagine operativa, non solo per far conoscere all’esterno, e in particolare agli investitori, i dati relativi al proprio impegno rispetto ai cambiamenti climatici o ai temi dell’inclusività, ma per studiare e mettere a punto fattive strategie per raggiungere gli obiettivi prefissati. E questo accade non solo per le imprese nate all’insegna della sostenibilità, ma anche in aziende che nel farne propri i principi si sono profondamente ristrutturate.
Una sera di qualche anno fa a Davos, in Svizzera, ho partecipato a una cena durante il World Economic Forum, una fondazione senza fini di lucro che organizza annualmente un incontro tra i principali esponenti della politica e dell’economia a livello mondiale. La serata era dedicata ai responsabili e a coloro che, all’interno di una società, si occupano di sostenibilità. Seduto accanto a me c’era un manager di Acciona, un’impresa di costruzioni spagnola, fra le maggiori in Europa. Gli ho chiesto di cosa si occupasse e lui mi ha risposto di essere responsabile delle Operations, del Business Development, dei Rapporti istituzionali e di altre attività collegate. Un’area ampia, ho commentato io, chiedendogli quante persone contava la sua struttura. «Settecento» mi ha risposto. Ne sono rimasto stupito: un ruolo di primissimo piano, insomma. Allora scherzando gli ho chiesto: «E cosa ci fai a una cena per chi si occupa di sostenibilità?». «Il mio job title è Global Head of Sustainability» mi ha spiegato. Illuminante. Questa risposta racchiude il significato che la parola «sostenibilità» deve avere all’interno di un’azienda: non un’attività laterale, complementare, da conseguire in parallelo, o ex post, ma embedded in tutte le attività e parte integrante del processo che genera profitto. Acciona è al terzo posto nella classifica EcoAct delle compagnie più sostenibili al mondo fra quelle quotate nei maggiori mercati azionari, ed è fra le prime cento nella graduatoria di Corporate Knights, la società canadese che dal 2002 elabora informazioni e dati sulla sostenibilità delle imprese.
Renata Codello, Umanesimo digitale
Per quanto paradossale possa sembrare, la rivoluzione digitale è la condizione che attualmente più facilita il ricongiungimento della cultura tecnica con quella umanistica e la contaminazione fra aree disciplinari e campi di indagine diversi. Il digitale e internet sono ottimi strumenti per la diffusione della conoscenza, la democratizzazione del sapere, il miglioramento delle condizioni educative. Non per niente internet è stato indicato come uno dei diritti fondamentali dell’uomo dall’Internet Governance Forum e dalle Nazioni Unite nel 2010. La proposta è stata poi rilanciata in un convegno, tenutosi nell’ottobre 2017, dalla Pontificia accademia delle scienze e dalla Fondazione per la collaborazione tra i popoli, creata da Romano Prodi. Al termine della giornata di studi, internet è stato dichiarato «lo strumento principale per rendere possibile l’inclusione, l’efficienza e per promuovere l’innovazione in diversi settori economici come la salute, l’agricoltura, l’ambiente, il lavoro, la parità di genere e la reciproca comprensione» (Pontifical Academy of Sciences 2017). Il Parlamento europeo è tornato sul tema nell’ottobre 2020, in un incontro voluto dall’allora presidente David Sassoli, cui hanno partecipato Tim Berners-Lee, l’inventore, con Robert Cailliau, del World Wide Web, Simona Levi, Romano Prodi e Ursula von der Leyen. Sassoli ha spiegato che la digitalizzazione nel tempo della pandemia ci rende consapevoli che abbiamo bisogno non solo di metterla a disposizione di tutti, ma di fare in modo che questa esperienza possa mettere tanti cittadini nella condizione di essere partecipi del mondo che è intorno a loro, di essere partecipi e attivi […]. Abbiamo bisogno che una riflessione sugli strumenti del web entri anche a far parte di quel bagaglio che tradizionalmente noi consideriamo diritti fondamentali delle persone (L’accesso a internet 2020).
Il riconoscimento di internet come strumento per l’emancipazione culturale e sociale, e di conseguenza economica, è di grande rilevanza; tuttavia, se alcuni Stati come il Brasile hanno precocemente adottato questo principio, e invece in altri, come l’Italia, la proposta di inserirlo nella Costituzione si è arenata, è evidente – come dimostra l’invito al dialogo avanzato da Sassoli – che servono accordi a livello sovranazionale. Infatti, nonostante Tim Berners-Lee avesse deciso che la rete deve appartenere a tutti, essere un bene condiviso, un diritto come la libertà di espressione e associazione, l’accesso è ancora precluso a metà della popolazione mondiale, e viene controllato da compagnie che hanno raggiunto dimensioni tali che solo grandi istituzioni o coalizioni di diversi Paesi possono tenervi testa. L’auspicio formulato da Ursula von der Leyen nel colloquio al Parlamento europeo va in questa direzione: implementare con finanziamenti comunitari le tecnologie che permettano a tutti i cittadini dell’Unione di accedere liberamente a internet, sorvegliare la qualità dei contenuti per evitare discriminazioni di ogni tipo, contrastare la mercificazione dei dati privati, in nome di ciò che maggiormente caratterizza l’Europa, una tradizione culturale incentrata sull’uomo, la libertà d’espressione e di circolazione delle idee (L’accesso a internet 2020).
Il digitale interagisce con il sapere e la cultura anche in modo strutturale e organizzativo. Il mondo industriale, ben rappresentato dall’immagine della catena di montaggio con la sua sequenza di fasi distinte per la produzione e l’assemblaggio, è fondato sulla divisione del lavoro, la compartimentazione delle discipline, l’organizzazione del tempo e dello spazio. Al contrario, l’era digitale appare come una rete che si posa sulle cose e le connette fra loro, in un flusso costante di informazioni che si muovono in tutte le direzioni: nodi anziché scatole chiuse, dati anziché oggetti, sapere collettivo e non più privato. In questo non solo le diverse forme di conoscenza si intrecciano, sono rese disponibili e accessibili, ma per gli studi umanistici si aprono nuove potenzialità. Le digital humanities – che esistono da una trentina d’anni, ma che solo nell’ultimo decennio si sono affermate e diffuse, rivoluzionando archivi e centri di ricerca, biblioteche e storiche istituzioni culturali – creano delle possibilità prima inimmaginabili per gli studi classici, per la storia dell’arte, la filosofia e la letteratura. Permettono infatti di disporre in rete, per esempio, non solo dei documenti, ma delle loro trascrizioni, nonché di contenuti ulteriori che facilitano e consentono di approfondire le ricerche, ampliando le conoscenze e il pensiero critico. Si pensi allo studio sui linguaggi che, condotto a partire dall’analisi della struttura di un testo, permette di mappare e confrontare forme linguistiche diverse, o all’archeologia, agevolata grazie ai database che raccolgono e comparano dati, immagini e reperti. La realizzazione di questi sistemi coinvolge esperti di settori molto diversi che, dialogando per mettere a punto stringhe, algoritmi, interfacce, condividono competenze e punti di vista. Non si tratta, tuttavia, solo di ampliare l’accesso alle fonti per gli umanisti: la grande importanza sta proprio nella possibilità di mettere in comunicazione settori diversi, attraverso l’uso di motori di ricerca che non trattano i dati con i criteri tradizionali, ma in modo randomico, creando entanglement non vincolati ai confini disciplinari.
Sempre più spesso si sente parlare di umanesimo digitale, della necessità di inserire il progresso tecnologico permesso dall’intelligenza artificiale nella prospettiva di un mondo guidato – e non subito – dall’essere umano. La creazione di macchine in grado di competere con l’intelligenza umana e superarla per velocità, precisione e capacità analitica non è più un’ipotesi remota, ma una realtà in molti settori della nostra vita, che si sta sviluppando ulteriormente in un processo inarrestabile e inevitabile, nonché, per certi versi, auspicabile, se considerati i benefici che apporta. Ma questo rapido e stupefacente progresso tecnologico non può prescindere dall’essere umano, avverarsi a suo discapito, impoverirlo. Difficilmente si può mettere l’uomo al centro, con i suoi valori e i suoi diritti universali, se sulle tecnologie digitali gravano monopoli sempre più pervasivi e potenti, di fronte ai quali poco possono fare non solo i privati cittadini, le comunità, le associazioni, ma persino gli stessi Stati. A meno che non stipulino accordi internazionali in grado di regolamentarne il processo e promuovere una digitalizzazione del mondo a favore dell’umanità.
Vittorio Cini, con il suo progetto volto a sostenere e incentivare gli studi umanistici, Adriano Olivetti, con la sua fabbrica costruita intorno alla persona e alla comunità, sono esempi della volontà di coniugare industria e umanità nella fase apicale dello sviluppo industriale italiano. Un’aspirazione cui non erano estranei altri imprenditori che attribuivano alle proprie aziende il compito di sostenere la cultura, attraverso pubblicazioni o produzioni cinematografiche. È il caso dell’Eni, con «Il Gatto Selvatico», la rivista diretta dal poeta Attilio Bertolucci, su cui scrivevano Goffredo Parise, Giuseppe Berto, Giovanni Comisso, Mario Soldati, Natalia Ginzburg, Leonardo Sciascia, Alfonso Gatto, e con i numerosi film diretti da registi affermati, come Joris Ivens, o all’epoca promettenti, come Bernardo Bertolucci. Oppure è il caso della Pirelli e della sua «Rivista», nata allo scopo di saldare la cultura tecnico-scientifica con quella umanistica; a tal fine si affidava alle parole di autori del calibro di Dino Buzzati, Eugenio Montale, Umberto Saba, Carlo Emilio Gadda. «Ogni contributo alla civiltà meccanizzata va inquadrato nei più alti valori culturali e sociali della vita» scriveva Alberto Pirelli nel presentare la rivista. Umanesimo industriale è proprio il titolo scelto dalla Fondazione Pirelli per l’antologia pubblicata nel 2019 (Fondazione Pirelli 2019).
Un umanesimo digitale è forse ancora più necessario – di fronte a supercomputer, Big Data, Data Analytics, Machine Learning da un lato e la trasformazione delle nostre azioni e del nostro patrimonio cognitivo in dati da estrarre dall’altro – per restituire all’uomo il ruolo di «misura di tutte le cose» e riconoscere così che la cultura è strumento del vivere civile, quell’operosità piena di pensiero che animava gli umanisti del Quattrocento.
Il grande progetto culturale di Vittorio Cini travalica i confini delle cosiddette discipline umanistiche e si apre, proprio in virtù di un’idea di dialogo interdisciplinare, alle questioni sociali, ambientali e urbane. Lo stesso Cini promuove nel 1962 un convegno dal titolo Il problema di Venezia, a cui ne sono seguiti altri, fino al recente Sostenibilità dei beni comuni locali con valore globale: il caso di Venezia e la sua laguna del 2016.
L’insieme di sguardi con cui, in queste occasioni, la città è stata valutata e i problemi che la riguardano sono stati analizzati è lo stesso che si interroga sul futuro di altre realtà urbane e del pianeta nel suo complesso. Sguardi e pensieri che, attraverso i valori umani, sociali e culturali, cercano soluzioni e propongono fattivi indirizzi di azione. È un tipo di approccio umanistico e culturale che, a partire dal dialogo e dall’ascolto, riesce a essere convincente. In questo è in sintonia con quello che lo scienziato politico Joseph Nye ha definito «soft power», la capacità di influenzare e convincere senza usare la forza o la coercizione, ma servendosi di persuasione, consenso, cooptazione. Potremmo definire questa modalità di esercitare il potere come politicamente e culturalmente sostenibile, in quanto promuove principi come il multilateralismo, l’equilibrio fra le forze in campo, il dialogo, l’inclusione. Non è quindi un caso se la Fondazione Giorgio Cini ospita i convegni annuali del Soft Power Club, che riunisce un gruppo internazionale di personalità politiche, istituzionali, imprenditoriali con l’obiettivo di promuovere attività per un mondo più aperto e integrato (Rutelli 2021). Come non è un caso che Venezia sia stata al centro delle riflessioni intorno a una rinascita planetaria dopo la pandemia: la storia e il patrimonio culturale della città testimoniano della capacità di questa città di interagire con l’ambiente naturale circostante e di intessere relazioni con paesi anche molto lontani, di guardare al futuro trovando le forze per realizzarlo proprio a partire dalla sua apparente fragilità, che è invece un saper mediare, accogliere, trasformare, innovare.
da “Imprese private e pubbliche virtù. Progetti e visioni in dialogo sul bene comune”, di Simone Bemporad e Renata Codello (prefazione di Romano Prodi), Marsilio 2022, pp. 224, euro 18.00