Stimolante come i precedenti, l’ultimo libro di Paolo Cirino Pomicino (“Il grande inganno”, edizione Lindau) è però questa volta meno provocatorio, più serioso, in qualche passaggio addirittura un po’ troppo in stile testamento morale. Ma forse è solo una impressione, perché nella sua nuova vita di scrittore e polemista, ci aveva abituato ai fuochi di artificio, ai ritratti fulminanti, alle ricostruzioni ardite ma suggestive, e forse ci aspettavamo, colpa nostra, più divertimento intellettuale, come in certi suoi articoli, fin da quelli firmati Geronimo sui giornali di Vittorio Feltri.
Certo, seduto davanti alla tastiera, Pomicino ha rivelato una forte attitudine alla scrittura, pari alla sua indomabile voglia di esserci, di combattere, di dire la sua, in questa seconda o terza Repubblica che non gli appartiene, che ha spazzato via quasi tutti i protagonisti della sua epoca. Lui no, anzi ha risalito la china di un’ostilità, talora un pregiudizio, che un tempo era forte, sia sui media che nell’opinione pubblica (ma non tra gli elettori campani, che lo voterebbero in massa ancora adesso se ci fossero le preferenze), ed è invece sempre più solida la reputazione riconquistata da osservatore capace di opinioni non banali o strampalate come quelle prevalenti nei salotti televisivi.
In questo nuovo libro, su molte cose si può non essere d’accordo, e il bello è che persino il prefatore, Ferruccio De Bortoli, non risparmia critiche e prese di distanza, quasi fosse un recensore e non una firma associata a quella dell’autore.
Siamo d’accordo con De Bortoli soprattutto sull’eccesso di amplificazione dell’importanza di ciò che ha a che fare con la finanza.
In Pomicino è quasi un’ossessione, ma è davvero un eccesso, che si scontra con la realtà. Certo che la finanza ha un ruolo ben poco al servizio all’industria e allo sviluppo, come dovrebbe essere. È un male non solo italiano innegabile, ma che la finanza sia una piovra che tutto controlla – politica e giornali – è una forzatura. Non vogliamo essere ingenui e vediamo naturalmente tanti difetti nella finanziarizzazione dell’economia, ma di quale finanza parliamo?
Ai tempi di Pomicino la piovra poteva essere la Mediobanca di Enrico Cuccia, che aveva un’importanza superiore alla sua forza reale, entrando nel vivo delle realtà industriali e condizionandole con quote di minoranza e molta suasion, magari poco moral. Ma oggi chi rappresenta la finanza onnivora? Se ci fosse stata finanza forte in Italia avremmo avuto buone privatizzazioni, non una farsa furbetta come quella della prima Telecom e molte delle successive!
La recente vicenda Generali ha messo in evidenza un conflitto interno, peraltro risolto alla fine con una logica di mercato, perché ha prevalso la convenienza. Carlo De Benedetti fa in tarda età il pacifista che critica la Nato e i poteri forti mondiali. Le banche sono molto strettamente condizionate da Francoforte e vengono da una stagione che è stata un bagno di sangue. E i protagonisti delle stragi venete e toscane non erano dei finanzieri, ma imprenditori dell’azzardo e della vanità. Le anomalie del potere bancario sono state semmai facilitate da leggi della Prima Repubblica, che trasferirono il controllo a Fondazioni autoreferenziali.
Quanto al rapporto con i giornali, si sopravvaluta il ruolo di quel che rimane dell’editoria e del giornalismo. Il sorprendente blocco unitario tra Stampa e Repubblica non ha risposto a logiche di sopraffazione finanziaria e oggi, semmai, c’è un’omologazione cui fanno da contrappeso solo le direzioni di Giannini e ancor più di Molinari. Lontani i tempi in cui Scalfari dava la linea a tutti (il narcisismo di Scalfari, non la finanza). Questi cambiamenti davvero notevoli sembrano più ripiegamenti difensivi, istinto di sopravvivenza delle redazioni, alle prese con l’inarrestabile calo delle vendite in edicola, anche quando questo ha ispirato campagne un po’ disperate che hanno spianato la strada alla miseranda ascesa dei 5 Stelle, comunque non a Soros. In fondo, l’unico imprenditore che se la cava, Urbano Cairo, è una figura del tutto nuova nel panorama editoriale, il primo tentativo di editore puro tanto auspicato per la complessiva libertà di stampa. Le bizzarrie de la7 e spesso anche del Corriere non sembrano i tentacoli di una finanza proterva.
La finanza cattiva è dunque la protagonista in filigrana del libro, ma è anche il legittimo pensiero personale dell’autore, la cui mano si vede in tante pagine in cui ha voglia e forza di lasciare le impronte digitali del suo essere controcorrente, e già questo potrebbe bastare per meritare la lettura.
C’è naturalmente la difesa di Giulio Andreotti, e non poteva non esserci. D’altra parte, se uno che è stato professionalmente sconfitto nelle “sue” aule giudiziarie come Gian Carlo Caselli viene periodicamente ospitato dal Corriere della Sera per raccontare una controverità sempre moralistica che, nonostante le sentenze, sancisce ex cathedra la colpevolezza dell’odiato Giulio, avrà pur diritto un amico di sempre a far valere la forza dei fatti e affermare che la mafia si è vendicata del legislatore che più l’ha colpita.
Meno scontati altri giudizi. Vanno letti con attenzione i numerosi riferimenti a Mario Draghi. Da un lato, Pomicino è un po’ il Pippo Baudo che rivendica “l’ho scoperto io”, dall’altro è sottile e capzioso nel commentare alcune pagine non allineabili con il coro laudativo attuale, ma l’autore sta sempre molto ben attento: butta lì qualche riflessione che sembra critica e conclude sempre con un elogio.
Più gustose – tra ironia e finta di non capire – le citazioni di Gianni De Gennaro, l’uomo di tutti i ruoli delicati dell’intelligence e dell’ordine pubblico. È uno slalom strepitoso tra dubbi e fatti accaduti, mai concluso con una censura, che viene se mai lasciata al lettore. Chiave di tutto una frase che attribuisce a Giuliano Amato, ministro dell’Interno di Prodi, impossibilitato a rispondere su quanti siano stati i mafiosi scarcerati per programmi di protezione tra il 1993 il 2005. «Caro Paolo, sulle tue domande la mia amministrazione è reticente», rispose l’ineffabile, e il reticente era appunto De Gennaro.
Come dice lo stesso titolo del libro, l’opera di Pomicino è fondamentalmente un ammonimento a non credere al mainstream, oggi in verità sempre meno vincente, sui meriti e le glorie solo immaginarie della Seconda repubblica.
Il grande inganno allora riguarda un po’ tutto: dal disastro della politica estera, allo sfottò per le porte lasciate aperte ai francesi predatori, alle doppie verità a 5 Stelle della vicenda Benetton Atlantia. E soprattutto – qui siamo totalmente d’accordo – sull’inganno della soluzione dei problemi tramite legge elettorale. Il grande inganno del maggioritario che doveva ridurre il numero dei partiti e lo ha moltiplicato, incentivando il “tarlo democratico” del trasformismo. Fino al paradosso che col proporzionale precedente c’era comunque una corrispondenza tra Paese reale e Parlamento, mentre il salvifico maggioritario ha prodotto governi sostanzialmente di minoranza, non a caso ripetutamente affidati o non politici.
Tutte ricadute di un fallimento generale della classe politica, ben lontani dalle favolose promesse di una seconda Repubblica redentrice, nutrita di personalismi già di per sé discutibili, ma inaccettabili quando a interpretarli sono apparsi sulla scena leader dell’invettiva da talk show o – quando andava bene – “bravi ragazzi di paese” come Spadafora e Di Maio.
Ventisette anni di illusioni e promesse sbagliate, culminate con il successo pentastellato, una “lilliput grillina, autoritaria e farsesca”.
E una grande colpa: non aver approfittato – ora che sta svanendo – della grande occasione dei tassi favorevoli, dell’inflazione inesistente, delle materie prime abbordabili.
Quanto appunto al terreno economico, Pomicino – medico mancato, anche se suo malgrado gran frequentatore di camere operatorie (auguri sempre!) – dimostra la lucidità dei vecchi tempi.
Rivendica – contro la tendenza acritica dei commentatori degli anni ’80 come anni del debito – che «nel 1992-1993 consegnammo alla seconda Repubblica un paese ricco e benestante, privo di tensioni sociali, disinflazionato e con una disoccupazione intorno al 5%». Sono dati di fatto, così come lo sono quelli che hanno successivamente portato il debito sopra il 150% attuale.
Debito che Pomicino considera sempre il grande problema (oggi un po’ accantonato dalla distinzione tra buono e cattivo, ma la guerra lo sta trasformando tutto in cattivo) e ripropone una sua ricetta che presuppone un “accordo” tra Stato e ricchezza nazionale che metterebbe a disposizione 120 miliardi di euro non a fronte di un condono ma di un nuovo accordo conveniente per il contribuente.
Insomma, ripetiamo: un libro da leggere, pieno di suggestioni, con qualche scivolata (l’eccessivo e un po’ troppo scolastico omaggio all’ambientalismo stride un po’ con il personaggio), ma con un grande denominatore comune: la passione per la politica.
Su questo, Pomicino non transige, e ha profondamente ragione, perché molti dei guai italiani contemporanei nascono dall’aver schiacciato la politica in una dimensione caricaturale, mentre è la più seria delle pratiche intellettuali. Come tale, richiede personale adeguato ed è un’anomalia ricorrere costantemente a non politici per poter meglio combattere gli antipolitici, che hanno procurato tanti guai. Solo l’emergenza di grandi temi epocali – la pandemia, l’aggressione russa in Ukraina – hanno forse rimesso ordine alla gerarchia delle cose davvero importanti, purché non sia già troppo tardi.
Che poi Pomicino faccia coincidere la sua nostalgia di politica con l’amore quasi esclusivo, monogamico, con la Democrazia Cristiana, possiamo rilevarlo ma perdonarglielo. Anche la Dc, in fondo, sta attraversando una stagione postuma di rivalutazione.