La sinistra italiana, tutta, andrebbe portata alla sbarra. Sì, esattamente processata per il reato di supponenza, prim’ancora che di inettitudine. Dovrebbe accadere così in un sussulto di amor proprio, di puro narcisismo, da parte dei suoi, diciamo, elettori, del suo insieme umano storico di riferimento. Il capo di imputazione? La sua stessa faccia. E poi, diserzione, incapacità e, appunto, protervia, così per avere innalzato sullo schermo del consenso illusorio alcune tra le facce più detestabili, se non di gran c., che si potessero reclutare, cooptare, scegliere, premiare, blandire, incollare su poster e post-it, consegnare alle teche televisive e al citofono radiofonico. Nella convinzione che fossero tutte facce funzionali alla conquista del consenso, facce responsabili, facce rispettabili, facce di “anime belle”, facce da cucirino, borsello o “pochette” civili, lì asserragliate nelle loro rendite private di posizione. E, sia ben chiaro, non stiamo certamente parlando di D’Alema, il cui soma, d’abitudine, nel bazar della chiacchiera politica è riferito a qualcosa di respingente, se non addirittura alla categoria stessa del detestabile, dell’odioso.
Intendiamoci, non esiste classe dirigente che non sia da reputare orrenda, ma quelle di sinistra, nel momento dell’errore, del dolo, della mediocrità, non hanno scusanti, se è vero che a queste ultime spetta infatti il dovere della discontinuità, dello scarto, ossia lavorare a mutare l’esistente, a donare orgasmi, a proclamare il libero amore in piazza, a consegnare sogni liberatori come quelli di un Buñuel, dunque le classi dirigenti di sinistra non hanno diritto ad alcun salvacondotto che legittimi la rapina e l’interesse privato, concesso invece alle destre, per statuto mondano e carnivoro stesso di queste ultime che confinano con la tentazione totalitaria e fascista, se non fosse ancora chiaro.
Quella italiana, è una sinistra di fatto latitante nella sua protervia, assente innanzitutto a se stessa, cioè sideralmente lontana da chi provava a leggere nelle sue labbra, lo diciamo assai semplificando, due semplici parole: pane e rose. La sinistra italiana sembra avere dimenticato i suoi elettori dentro la propria auto, parcheggiata sotto il sole accecante di ciò che Pasolini chiama la Dopostoria, stupendosi poi di non averli più trovati lì presenti, in vita, disposti ad assecondare i desiderata dei suoi leader, interessi personali, carriere, misere carriere, facce ancora di.
Dal citofono della sua tomba la sinistra ci sta forse appena chiedendo di difendere la democrazia o piuttosto di scendere in piazza affinché anche l’anno prossimo Fabio Fazio, Concita De Gregorio e Corrado Augias siano nuovamente presenti nel palinsesto di Raitre?
Tralasciamo il dato contingente, non facciamo dunque caso ai volti di Salvini e Di Maio e ai loro meschini calcoli, non facciamo neppure caso all’attacco che questi ultimi hanno sferrato contro Sergio Mattarella, la questione nel nostro caso, dopo decenni di riflessione prospettica inesistente, assodate le miserie del veltronismo e del renzismo, la questione è assai più ampia e profonda, infatti riguarda e investe le ragioni il futuro stesso della sinistra, il suo presidio, dalla daga di Spartaco alla sciabola di Carlo Pisacane, colui che portò le bandiere rosse nel Risorgimento, da Marx e Bakunin a Togliatti e Luigi Longo, da Tanassi a Nicolazzi, da Nenni a Craxi, da Berlinguer agli ultimi epigoni, i Vendola, le Boldrini, i Michele Serra e consorte con i loro profumi per ceti medi riflessivi, “Eau de Moi”, sorta di “arbre magique” destinato a chi apprezza anche i film di Moretti, Archibugi e Virzì, cinema di governo, se non di regime, che sembra voler suggerire in ogni suo fotogramma: non è vero che è notte fonda, anzi, qui tutto va bene… Inimmaginabile che in pochi mesi si possa riuscire a rimettere insieme i cocci di decenni di protervia e mediocrità arrogante travestita da vera eleganza intellettuale, da “vocazione maggioritaria”.
Ma la vera questione riguarda la desertificazione d’ogni immaginario, perché se ai politici spetta di fare attenzione ai nodi spiccioli delle cose, è invece a queste altre solo in apparenza secondarie cose che uno scrittore, un artista debba prestare curiosità, e dunque, come un testo visivo a fronte, in questo ideale processo alla sinistra, dovranno scorrere le immagini cui tutti un tempo assimilavano questa, perfino quelle che custodiscono la sconfitta, ma quel genere di disfatta che restituisce comunque pienezza, la certezza, come dice sempre Pasolini, d’essere “nella lunga serie di notti in cui marcia, senza bandiere, la vita”. In quale botola la miseria attuale sinistra ha insomma ricacciato, non dico i volti dei partigiani che scendono a valle o, che so, Rosa Luxemburg che ribatte a Lenin sulla questione della difesa della democrazia anche in uno stato socialista, o ancora i sorrisi delle grandi conquiste civili, l’ironia che ha fatto scrivere sui muri ai miei meravigliosi sventati compagni di strada “Dopo Marx, Aprile”, “Dopo Mao, Giugno”?
Sia detto in breve, dal citofono della sua tomba la sinistra ci sta forse appena chiedendo di difendere la democrazia contro la subcultura razzista rionale leghista e pentastellata o piuttosto di scendere in piazza affinché anche l’anno prossimo Fabio Fazio, Concita De Gregorio e Corrado Augias siano nuovamente presenti nel palinsesto di Raitre?