Siamo in debito con il futuro. L’Overshoot day scatta quando un Paese esaurisce virtualmente le risorse naturali a sua disposizione, cioè quelle che può rinnovare nel corso di un anno. Da quel momento in poi, è in deficit, perché a quei livelli di consumo la Terra non fa in tempo a rigenerarsi. Per l’Italia, nel 2022, è il 15 maggio, ma le Nazioni peggiori hanno iniziato a sforare già a febbraio o marzo. Tuttavia, gli esperti della comunità scientifica sono divisi sull’accuratezza di questo indicatore, che ha comunque un forte valore simbolico e comunicativo.
Rispetto al 2021, quest’anno c’è stato un lieve (lievissimo) miglioramento. Di due giorni. Condividiamo la data con Bahamas e Cile. È maggio, e non aprile, il «mese più crudele»: si concentrano qui gli Overshoot day di 28 Stati, 29 se includiamo anche l’Unione europea. Ad andare in rosso per primi, secondo la cronologia del Global Footprint Network, sono stati Qatar (10 febbraio) e Lussemburgo (14 febbraio), seguiti il 13 marzo da Usa, Canada e Dubai.
A country’s overshoot day is the date on which Earth Overshoot Day would fall if all of humanity consumed like the people in this country.
Where’s your country in this doomsday ranking? 😭
Country Overshoot Days 2022 – Earth Overshoot Day https://t.co/AIE5v1aP6v pic.twitter.com/HKsxSWWLCh
— ParentsForFuture Global (@parents4futureG) February 9, 2022
Il calendario riflette, in parte, anche il grado di sviluppo. L’Occidente e le potenze economiche affollano i primi sei mesi dell’anno; nella seconda metà la frequenza rallenta, finché i segnaposto non si diradano sui grafici. L’ultimo paese a bucare la soglia della sostenibilità sarà la Giamaica, il 20 dicembre, quasi in tempo per chiudere il bilancio ecologico sulla parità.
Queste giornate fotografano il momento in cui avviene il superamento in base ai parametri del singolo Stato: come se fosse tutta l’umanità ad avere quelle abitudini. Si potrebbe sperare in un riequilibrio dei danni degli Stati più voraci grazie ai comportamenti virtuosi degli altri, ma non è così. C’è infatti anche un Earth Overshoot day globale, che misura quando effettivamente il mondo prosciuga le capacità del pianeta. Nel 2021, è accaduto il 29 luglio.
Per sapere quando verrà raggiunto quest’anno, bisogna aspettare ancora un po’. Di solito la data viene comunicata il 5 giugno, in occasione della Giornata mondiale dell’ambiente. Sì, c’è una giornata mondiale per ogni cosa, ma questa ci sembra più significativa delle altre. Che lo si ritenga un indice affidabile o meno, una retrospettiva sull’Earth Overshoot day evidenzia comunque un’accelerazione. O, meglio, una retromarcia: negli Anni ’90, cadeva a ottobre, a inizio millennio si è attestato a settembre, dal 2005 in poi ha percorso a ritroso tutto agosto, fino a stabilirsi a luglio.
Solo negli Anni ’70 si registrava a dicembre; nel decennio successivo si era già spostato a novembre. È da mezzo secolo che alla nostra specie non basta più un pianeta solo. Anche nel 2022 l’Overshoot day sarà in estate e magari passerà quasi inosservato, nell’asfissia di notizie e con lo svuotamento dei palinsesti tipico della stagione. Ma il ritmo attuale, sempre più vicino a doppiare quello biologico, significa che anche quest’anno avremo prodotto a credito, consumando idealmente le risorse di un’altra Terra. Per la precisione, di 1,75: quasi due pianeti, insomma. I creditori sono le nuove generazioni, chissà se qualcuno le ha avvisate.
La velocità di crociera dell’Italia è di 2,7. Certo, i soliti noti fanno peggio: agli Stati Uniti servirebbero 5,1 Terre, all’Australia 4,5 e alla Russia 3,4 (prima della guerra). Le stime utilizzano come unità di misura gli ettari globali (gha), cioè l’area necessaria a fornire a una persona tutto ciò di cui ha bisogno, sia in termini di risorse naturali (cibo, legname eccetera) sia di spazio occupato da città e infrastrutture e di quello necessario a riassorbire l’anidride carbonica emessa.
La comunità scientifica, come anticipato all’inizio dell’articolo, ha espresso alcuni dubbi sull’efficacia e sull’affidabilità dell’Overshoot day. Le principali sono state riassunte da un professore della Michigan State University, Robert B. Richardson, in un articolo su The Conversation. Il Global Footprint Network calcola l’impronta ecologica a partire da criteri metrici, l’estensione delle superfici, e sulla base di questi fa un bilancio. Ma c’è un problema: non considera l’impatto delle attività umane, per esempio per il consumo di suolo o di riserve idriche.
Così, in passato, l’Indonesia è risultata tra le zone virtuose, nonostante avesse uno dei peggiori tassi di deforestazione al mondo. L’analisi, mette in luce il professore, equipara la sostenibilità all’autosufficienza, perché dà per scontato che una Nazione dovrebbe produrre tutto ciò che consuma, anche quando sarebbe meno costoso importare dall’estero. Qui il caso è il Canada, che risulta un «creditore ecologico» grazie a un serbatoio biologico superiore alle necessità dei suoi abitanti. Eppure è tra i primi dieci Paesi estrattori di petrolio, un combustibile fossile non rinnovabile, che poi esporta a un «debitore ecologico» come gli Usa.
Più di un’impronta, secondo Richardson, potrebbe servire «una dashboard di indicatori ecologici». Il Global Footprint Network ha risposto alle critiche spiegando che lo spirito dell’iniziativa è scattare una fotografia, un po’ come fa il Pil per l’economia. «Non ci si aspetta che il Pil mostri le ineguaglianze all’interno di una nazione», ha dichiarato al New York Times la direttrice Laurel Hanscom. Servirebbe, insomma, a dare un’idea di come stanno andando le cose in generale.
Nel 2020, la pandemia ha comportato una contrazione del 9,2% della carbon footprint. Ricordiamo i video di esaltazione per un fantomatico ritorno dei pesci nei Navigli di Milano e altre amenità simili, ai tempi del lockdown. «In un modo o nell’altro, l’umanità troverà un equilibrio con la Terra, ma non vogliamo che accada per via di un disastro», ha detto Hanscom, e ci mancherebbe altro. La ong spera in provvedimenti internazionali. Il richiamo europeo per i ritardi cronici del nostro Paese sulla qualità dell’aria non ci mette esattamente tra i primi della classe.
Alla fine, forse, il merito dell’Overshoot day e dei suoi fratelli, con i loro limiti, è che non sono più sensazionalismo allarmista: sono cronaca. È sacrosanto correggere le equazioni e migliorare i parametri che abbiamo, ma quando su tutto il cruscotto sono accese le spie, probabilmente si tratta di un’avaria. Meglio rallentare, allora.