Quello delle lunghissime liste di attesa nella sanità italiana denunciate dalle Regioni è «un problema che viene da lontano ed è stato ulteriormente complicato dal Covid», ammette il ministro della Salute Roberto Speranza in un’intervista a Repubblica. Annunciando che il governo ha «già indirizzato un miliardo di euro, in due tranche, alle Regioni per affrontarlo e ci aspettiamo di vedere presto i risultati. La questione attese è legata al numero di medici più che alle attrezzature. Sul personale abbiamo avviato un’operazione mai vista».
Il ministro spiega che «nel nostro Paese si finanziavano in media 5 o 6mila borse di specializzazione in medicina l’anno. Così il numero dei nuovi medici pronti a entrare nel sistema era sempre inferiore a quello di chi andava in pensione o comunque lasciava. Negli ultimi due anni abbiamo finanziato prima 13.400 borse e poi 17.400. C’era un imbuto formativo, ora non esiste più».
Il problema è che quei dottori saranno disponibili dopo i 4-5 anni di specializzazione. Le attese, anche oltre 250 giorni per una visita o un esame in certe città, ci sono ora. «Ma i medici non si comprano sul mercato internazionale, come i camici o i respiratori», risponde Speranza. «O li hai formati con una programmazione pluriennale o non li hai. Noi negli ultimi due anni abbiamo finalmente investito come si doveva. Per l’immediato, il miliardo di euro in più servirà a comunque a recuperare con interventi straordinari».
Quello dei fondi a disposizione è un altro dei problemi. «Quando sono diventato ministro, nel settembre 2019, il fondo sanitario nazionale era a 114 miliardi di euro e aumentava in media di meno di un miliardo all’anno», dice Speranza. «Ora, dopo due anni e mezzo, siamo arrivati a 124 miliardi, dieci in più. Non c’era mai stato nella storia del servizio sanitario nazionale una crescita delle risorse così importante in tempi così brevi».
«C’è stata una stagione troppo lunga di definanziamento della sanità e le risorse vanno aumentate ancora», ammette. «Abbiamo l’impegno a portare il fondo a 128 miliardi in due anni, ma voglio lavorare per fare crescere ancora questa cifra. Poi sono per superare i tetti di spesa che hanno le Regioni, a partire da quella per il personale».
Intanto l’emergenza Covid non è finita e le Regioni chiedono più soldi. «Abbiamo già messo molte risorse al di fuori del fondo sanitario nazionale per la pandemia», dice il ministro. «Ne servono ancora e le troveremo. Sono stati anni difficili e avremo altre spese, ad esempio per i vaccini. Ma non è accettabile che il dibattito non tenga conto di un dato di realtà: così tanti soldi sulla sanità non sono mai stati messi».
E grazie al Piano nazionale di ripresa e resilienza, «arriveranno 20 miliardi». Poi «ci sono 625 milioni che per la prima volta la programmazione europea riserva al “Pon” salute, per le aree svantaggiate. Quei soldi vanno al Sud e serviranno anche a recuperare gli screening oncologici saltati».
Sui pronto soccorso «abbiamo fatto un primo passo stanziando 90 milioni e istituendo una nuova indennità specifica». Sono prime risorse, «cercheremo di trovarne altre ma si tratta di un segnale: diciamo ai lavoratori che siamo consapevoli delle loro difficoltà. Poi avrà un ruolo fondamentale il Pnrr». Perché «circa 7 miliardi andranno all’assistenza territoriale, irrobustendo la rete che fa schermo al pronto soccorso, perché prende in carico i pazienti prima che finiscano in ospedale. Nel Piano si prevedono 1.350 case di comunità, dove lavoreranno medici di famiglia, specialisti, infermieri».
E per evitare, come per la sanità, che anche l’uso dei fondi del Pnrr sia sbilanciato tra le regioni, «entro il 30 giugno firmeremo un Contratto istituzionale di sviluppo, Cis, con ogni regione. Il finanziamento sarà legato al raggiungimento di certi risultati. Ci sarà un alto livello di monitoraggio dei territori. L’obiettivo è una sanità nazionale più omogenea».