Il verdetto del processo civile tra Johnny Depp e Amber Heard ha sviluppato sulla stampa progressista italiana foschi e pessimistici commenti che da Arianna Farinelli a Gianni Riotta su Repubblica, sull’onda di New Yorker e New York Times hanno intravisto in esso il punto di rottura della lunga battaglia iniziata qualche anno fa col movimento #MeToo, la rivincita di una latente misoginia per cui «il prestigio e l’autostima di un uomo di successo valgono più della salvaguardia e della dignità di una donna», come ha scritto A.O. Scott sul principale quotidiano statunitense
Ha destato particolare sensazione la valanga di adesioni all’hashtag #justicefordepp su Twitter e su vari social cui alcuni hanno attribuito un ruolo non indifferente nell’esito della causa intentata da Johnny Depp all’ex moglie.
Un’enfasi non giustificata, forse frutto di un riflesso condizionato, che tuttavia merita una riflessione sui luoghi comuni che regolano l’informazione e sul ruolo devastante dei social sulla realtà giudiziaria.
Quanto al primo punto, un processo civile è un processo civile, un istituto che vive di regole proprie e ben diverse da quello penale, anche se il gusto degli americani verso il duello e la spettacolarizzazione lo rendono simile a quello penale con il dibattimento incentrato sugli interrogatori delle parti e dei testimoni. Quello che in Italia sarebbe stata una noiosa questione di citazioni e di verbali scritti, negli Stati Uniti è diventato un serial televisivo di strepitoso successo.
Così, legittimamente, qualcuno può chiedersi se l’epilogo sia stato l’elaborazione di una sceneggiatura in cui ha contato il carisma dei contendenti più che una ragionevole sentenza.
Del resto una quarantina d’anni fa in Kramer contro Kramer, storia cinematografica di una contesa giudiziaria tra due genitori per un bambino, un gigionesco Dustin Hoffman trionfava su una fredda e antipatica Meryl Streep. Nei film succede, ma nella realtà gli ultimi anni ci avevano abituati a esiti ben diversi in cui le ragioni delle donne vittime finivano per prevalere su quelle degli accusati maschi, anche in situazioni di estrema ambiguità. E infatti la vittoria di Depp, pur a sua volta condannato per diffamazione circa una dichiarazione di un suo avvocato contro le macchinazioni della moglie, è stata accolta con grande stupore
Nel caso Depp vs Heard va detto che l’oggetto non erano accuse penali di abusi che mai la donna ha formalmente mosso all’ex marito, ma assai più semplicemente un editoriale a firma di Heard contro la violenza sulle donne che l’attrice, peraltro, premetteva di aver sperimentato ancor prima di conoscere Depp.
Nell’articolo, Heard scriveva che il fatto di essersi pronunciata contro gli abusi aveva suscitato «la collera del potere» e che aveva sperimentato in prima persona come le istituzioni proteggano «gli uomini accusati di abusi».
Il riferimento della donna era a una precedente azione giudiziaria mossale da Depp in Inghilterra tramite uno dei suoi avvocati che l’aveva accusata di aver ordito false denunce. Il giudice inglese gli aveva dato torto come del resto quello americano che sul punto lo ha condannato. Nelle espressioni dell’ex moglie, l’attore aveva individuato un riferimento diffamatorio alla propria persona e aveva querelato.
Dunque si trattava in breve di valutare se le affermazioni, piuttosto generiche, della donna rientrassero o meno nella libertà di esprimere un’opinione, cosa che invero non sarebbe dovuta risultare difficile per un discreto avvocato.
Invece Heard ha clamorosamente perso per aver voluto trasformare un’ordinaria causa di reato a mezzo stampa in un surrogato di un processo penale contro il marito per maltrattamenti.
Lo ha perso perché ciò che è uscito fuori è stato il terribile racconto di un legame tossico in cui entrambi i coniugi sono stati vittima e carnefice dell’altro: l’impossibilità di addossare un presunto crimine al marito ha rovesciato su Heard l’accusa di inaffidabilità e dunque di avere agito con dolo («malice») contro Depp.
Una verità banale che disvela l’ambiguità del male che si cela in molti legami di coppia ma che fa clamore perché dissolve una verità che negli ultimi anni era diventata la chiave unica di lettura di vicende analoghe: l’indiscussa condizione di vittima della donna.
Questo rovescio di fortuna, secondo molti tra cui l’editorialista del New York Times A.O. Scott, sarebbe da attribuire alla seduzione esercitata da Johnny Depp per cui i giurati avrebbero votato il personaggio e non il persecutore, il falso Capitan Barrow piuttosto che valutare il vero mascalzone.
E qui va esaminato il secondo profilo della questione: gli effetti costituiti dal processo mediatico consentito dalle riprese tv dell’intero dibattimento. In molti si dicono convinti che senza le telecamere l’esito sarebbe stato diverso: lo credo anch’io, ma io ritengo che questo sia stato un effetto positivo con qualche insegnamento anche per la realtà giudiziaria italiana.
Seguendo da vicino un dibattimento duro e spietato, incentrato su contro esami serrati e a volte spietati, il pubblico si è formato un’opinione del tutto diversa da quella rappresentata da un movimento d’opinione molto diffuso e capace di condizionare i media.
Depp ha manipolato l’opinione pubblica o gli spettatori, e i giurati hanno colto l’essenza della questione una volta che hanno potuto assistere a un processo senza limitarsi alle versioni di comodo.
Veniamo all’Italia: se si fosse trattato di un classico processo penale fino a qualche tempo fa l’opinione pubblica sarebbe stata informata dalle indiscrezioni fatte filtrare dalle indagini da inquirenti loquaci, che avrebbero fatto coincidere le loro tesi con l’unica realtà possibile tramite il sostegno della stampa amica.
Da qualche mese, il fenomeno si è molto attenuato perché un’apposita legge sulla presunzione d’innocenza in esecuzione di una direttiva europea lo proibisce, consentendo solo anodini comunicati ufficiali rilasciati dai capi delle procure su vicende che gli stessi ritengano essere di pubblico interesse.
La riforma viene bombardata dai magistrati e dalla stampa, improvvisamente orfana di abboccamenti privati e non di rado intimi con i pubblici ministeri, in nome della libertà di stampa e del diritto di informare.
Ebbene, il processo Depp dimostra come l’informazione libera e completa la possa fornire solo un pubblico processo con il pieno contraddittorio dei difensori delle parti, e non i bocconi accuratamente scelti da una solo dei contendenti da lanciare ai presunti segugi dell’informazione, ridotti a cani da riporto delle idee dell’accusa.
Il caso in questione conferma che è un bene, nonostante le lamentele e le lacrime di coccodrillo di stampa e magistratura, che le indagini restino segrete e che l’informazione sia centellinata fino a quando non arriva un pubblico contraddittorio.
Un’informazione esauriente e moderna richiede avvocati che, come i colleghi americani, abbiano il gusto della battuta, la capacità di stendere un comunicato e di inventare frasi sintetiche ed efficaci, rinunciando al funereo gergo curiale, ma intanto il caso Depp ha squarciato un velo su certe ipocrisie. E non è poco