Primo effetto delle amministrative: si apre ufficialmente la guerra civile nel Movimento 5 stelle, il partito-fantasma che si aggira nei meandri della politica come un vecchio Re abbandonato da tutti. Non sarà un caso che proprio nel giorno in cui il detestato successore a Palazzo Chigi, Mario Draghi, si conferma con il viaggio a Kiev più che mai un punto di riferimento fortissimo a livello mondiale, sulla testa di Giuseppe Conte, ormai non più punto di riferimento di nessuno, piombi la botta di Luigi Di Maio.
Ha bruciato i tempi, il ministro degli Esteri, di cui si attendeva lo sgancio della bomba dopo i ballottaggi. Ma ha scelto di parlare subito, ora che la cenere è ancora calda nel braciere della disfatta di domenica scorsa, tagliando la strada all’avvocato così che egli non possa avere tempo di riprendere fiato (d’altronde la sentenza di Napoli che lo ha confermato presidente del Movimento non ha avuto alcun peso).
Il momento è adesso, almeno per un primo uppercut per farlo vacillare, il tempo per mandarlo al tappeto verrà. Giunge dunque a maturazione, nel senso che ormai è squadernato, il conflitto tra Di Maio e Conte, uno scontro che non nasce certo oggi ma che già era evidentissimo nei giorni del Quirinale quando il legale della provincia di Foggia ne aveva combinate più di Carlo in Francia, in tandem con Salvini, prima di essere sbattuto fuori dalle trattative grazie al consenso crescente per la conferma di Sergio Mattarella.
«Bisognerà discutere…», aveva detto allora Di Maio, ma poi non se n’era fatto niente almeno pubblicamente pur essendo sempre stato chiaro a tutti che il punzecchiamento pacifista di Conte mirava a creare problemi alla linea pro-Ucraina del governo italiano. Ed è questo il punto politico sul quale avviene la rottura.
Di Maio non ne può più di un Conte antigovernativo. Meglio regolare subito i conti con il Mélenchon de’ noantri. E infatti è da mesi che il ministro degli Esteri attendeva passare sul fiume il cadavere di Giuseppi anche se forse nemmeno lui si attendeva una disfatta così clamorosa: «Non abbiamo mai brillato alle amministrative ma non siamo mai andati così male».
L’altro punto dolente è questo: che nel Movimento c’è «troppa autoreferenzialità», cioè non c’è neppure «un posto in cui dire queste cose», il che è vero ma suona singolare che Di Maio si ricordi solo adesso di questa a-democraticità che è un aspetto intrinseco alla natura antipolitica e populista del M5s di cui lui stesso è stato per anni il numero uno. Forse a furia di frequentare le cancellerie di Paesi democratici effettivamente ha maturato un’idea diversa da quella che condivideva con Beppe Grillo e Alessandro Di Battista fatta di politica-spettacolo, insulti a mezzo mondo («Il partito di Bibbiano» è opera sua) e una pratica della democrazia interna a colpi di clic e di formazione di cordate di potere.
A ogni modo meglio tardi che mai, ma Conte su questo ha avuto gioco facile: «Che faccia lezioni democrazia interna fa sorridere». E lo ha invitato a una «audizione» in consiglio nazionale. È sdegnato, l’avvocato. Colpito duro.
Il succo dello scontro che suggerisce alcune interpretazioni.
La prima l’abbiamo accennata: si va verso una crisi irreversibile della leadership di Giuseppe Conte. Vedremo come reagirà l’avvocato, che teme una scissione dimaiana che non è impossibile, ma obiettivamente egli non ha molte frecce al suo arco: fare un suo Papeete non sembrerebbe facilmente spiegabile agli italiani in un momento in cui preme la crisi economica ma al tempo stesso l’Italia è guidata da un leader di caratura mondiale.
È possibile che nei prossimi mesi Conte darà sempre maggiori segni di nervosismo ma dovrà combattere non solo contro Di Maio (e Beppe Grillo che nemmeno è andato a votare di fatto separandosi dall’avvocato nel momento del bisogno, quello del voto) ma contro un sentiment dell’opinione pubblica di quelli che non perdonano, cioè l’aleggiare dell’odore acre del fallito, il «cadavere che putre», come scriveva Dostojevskji.
La gente non perdona. Da un momento all’altro i contiani possono squagliarsi come dopo il 25 luglio.
Una seconda considerazione è questa, persino ovvia: i leader antidraghiani per eccellenza, Conte e Salvini, sono ormai messi in discussione nei rispettivi partiti, ma anche nel Partito democratico c’è da notare che un forte sostenitore di Draghi come Enrico Letta si è rafforzato – e di converso i più insofferenti, quelli della sinistra, sono costretti a tacere e acconsentire – e persino nel minuscolo Articolo Uno i filo-contiani vicini a Pier Luigi Bersani hanno molto meno forza del più fedele al governo, cioè Roberto Speranza.
È una fase molto complicata, insomma, ma nella quale il draghismo sembra prevalere un po’ in tutti i partiti (lasciamo ovviamente stare Fratelli d’Italia che vive in un mondo suo). È un’ipotesi, una lettura.
Quello che è sicuro è che l’azzeccagarbugli di Volturara Appula, cioè il meno draghiano di tutti, è all’ultima spiaggia e forse si trascinerà appresso chi lo cantò come leader dei progressisti italiani, i quali fischiettano ma prima o poi qualcosa dovranno pur dirla, ora che insieme all’ex punto di riferimento dei progressisti anche l’alleanza strategica con lui è tramontata.