Il viale del tramonto di Giuseppe Conte, ormai inesorabile, è punteggiato da innumerevoli penultimatum, tutti puntualmente falliti, e non solo: quando la tempesta si avvicina ecco l’abbandono della zattera del Movimento 5 stelle da parte del ministro degli Esteri Luigi Di Maio dei suoi seguaci che hanno rotto il cordone ombelicale e che andranno a fondare i gruppi parlamentari “Insieme per il futuro” – non un granché – si parla di una cinquantina tra deputati e senatori, forse più.
Certo il clima durante la comunicazione pubblica della scissione è parso molto su di giri. Fa effetto sentire Di Maio teorizzare ora che uno non vale un altro, rovesciamento siderale del mitico uno vale uno che fece tanta fortuna ai bei tempi, fa effetto sentire che non ci sarà più odio e addirittura evocare David Sassoli che faceva parte – Di Maio dixit – del «partito di Bibbiano». Sul futuro del nuovo gruppo dimaiano è impossibile fare scommesse ma comunque ha già raggiunti un risultato: da oggi il M5s contiano non è più il partito più forte in Parlamento.
Nel giorno della ritirata poco strategica sul fronte dell’Ucraina dunque a Conte casca in testa una bella scissioncina della quale si potrà pensare di tutto tranne che non sia una nuova botta al giocattolo già lesionato dell’avvocato.
Che il ministro se ne sia andato semplicemente perché così dribbla il vincolo dei due mandati o per ragioni più politiche lo diranno la storia: ma la coincidenza tra la scissione dimaiana e la calate di brache di Giuseppi in Senato fa veramente impressione.
Già, il Conte dimezzato ieri ha fatto un buco nell’acqua, avendo per settimane minacciato sfracelli contro le armi all’Ucraina e trovandosi alla fine nudo e solo come un amante abbandonato in piena notte e di fatto obbligato ad accettare una risoluzione unitaria della maggioranza passata con larghissimo margine (219 sì, 20 no, 20 astenuti).
È un documento che non reca particolari novità alla linea esposta da Mario Draghi in Senato, salvo la sottolineatura del «coinvolgimento del Parlamento» nei passaggi e sui temi che verranno, «ivi compresi le cessioni di forniture militari». Tutto qui? Tutto qui.
Ha imposto ai partiti di governo, l’avvocato del populismo, una mediazione di ore e ore che non ha certo scompigliato i capelli del pazientissimo Enzo Amendola, l’uomo che ha materialmente steso la risoluzione insieme al ministro per i rapporti col Parlamento, il dimaiano Federico D’Incà: «Abbiamo dovuto lavorare sodo pure sulle virgole – ha detto Amendola a Linkiesta – ma alla fine il governo porta a casa un bel risultato».
Il testo della risoluzione ricalca la linea illustrata in Aula dal presidente del Consiglio, e non è una linea difficile da capire: «Solo una pace concordata e non subita può essere davvero duratura. La strategia dell’Italia si muove su due fronti: sosteniamo l’Ucraina e le sanzioni alla Russia affinchè Mosca accetti di sedersi al tavolo».
I grillini contiani, allertati dall’avvocato sempre in cerca di pretesti per creare difficoltà al governo di cui fa parte, da settimane avevano brandito la bandiera pacifista del no all’invio di ulteriori armi a Kiev, poi hanno ripiegato su un’altra frase magica, «il coinvolgimento del Parlamento», pretendendo che Draghi fosse automaticamente obbligato ad andare in Aula prima di ogni vertice europeo (cosa che peraltro ha fatto e sta facendo: domani infatti c’è il Consiglio europeo) e prima di ogni decisione sulle armi.
Un meccanismo rigido che ha lasciato il posto a un’altra formulazione più di buon senso: si tratta di «continuare a garantire, secondo quanto precisato dal decreto-legge n. 14 del 2022, il necessario e ampio coinvolgimento delle Camere con le modalità ivi previste, in occasione dei più rilevanti summit internazionali riguardanti la guerra in Ucraina e le misure di sostegno alle istituzioni ucraine, ivi comprese le cessioni di forniture militari».
Il riferimento al decreto già votato a marzo è fondamentale perché conferma il pieno sostegno del Parlamento italiano all’Ucraina. Il presidente del Consiglio non ha fatto altro che ribadire la posizione già espressa molte altre volte, forse con un pizzico di enfasi in più sulla necessità di una trattativa di pace non serviva molto altro: aveva ben chiaro, Draghi, che Conte si era cacciato per l’ennesima volta in un vicolo cieco.
Il dibattito in Senato ha segnato dunque una brusca retromarcia dei contiani e anche un netto ammorbidimento della Lega (d’altra parte, pure Matteo Salvini che può fare?) garantendo così la tenuta della maggioranza, malgrado le tensioni delle ultime ore che avevano indotto qualcuno a parlare di roulette russa, di un governo sull’orlo del burrone.
E invece era solo un pistola ad acqua, quella di Conte, mentre il Movimento si suicidava per davvero. È un crollo politico di grande importanza, previsto e auspicato da tanti. Renzi, secco: «È l’epilogo, sono finiti». Ed è difficile stavolta dare torto a Gianluigi Paragone: «Di Maio sembra Enzo Scotti e Conte Giovanni Goria disegnato da Forattini». Ricordate? Era senza faccia.