Dice Luigi Di Maio, senza traccia d’ironia, che il Movimento 5 stelle rischia di diventare «la forza politica dell’odio», esito davvero sorprendente, a suo parere, per una forza politica «che nello statuto ha il rispetto della persona» (e che evidentemente, verrebbe voglia di aggiungere, è nata da una cerimonia chiamata «Ma si figuri Day»).
Dice Giuseppe Conte, a chi gli domanda (Federico Capurso in un colloquio sulla Stampa) se effettivamente voglia uscire dal governo: «Macché usciamo! È vero, tutti mi chiedono di farlo, ma io non sono uno che gioca partite doppie». Lui, il presidente del Consiglio capace di guidare due governi consecutivi di opposto segno politico in questa stessa legislatura (e fosse stato per lui, com’è noto, anche tre).
Dice Giorgia Meloni che Enrico Letta, avendo criticato il suo fiammeggiante comizio spagnolo in cui aveva difeso la «cultura della vita», di conseguenza, dice «sì all’abisso della morte». La leader di Fratelli d’Italia ci ha fatto anche una card, nello stesso momento in cui annuncia querele a destra e a manca contro il «linciaggio» e il clima di odio che la sinistra alimenterebbe nei suoi confronti.
Queste, in estrema sintesi, le posizioni assunte soltanto nelle ultime ventiquattro ore dai principali leader politici del paese. Da cui si evince che il bipopulismo italiano ha prodotto un’ulteriore mutazione: il populista permaloso. Quello che ti dà dell’assassino mentre denuncia il clima di odio nei suoi confronti. Quello che dopo avere accusato gli avversari di fare l’elettroshock ai bambini per rivenderli alla tratta delle bianche deplora gli «attacchi personali» come risposta alle obiezioni politiche. Quello che prima ti insulta e poi si offende.
Non è facile dare conto di un simile dibattito. Un dibattito che solleva anzitutto, per chi voglia – o debba – occuparsene, un problema di metodo. Se cioè sia giusto, nei confronti del lettore, fingere di prendere in seria considerazione l’accusa rivolta da Meloni a Letta di dire «sì all’abisso della morte» (davvero si può discutere seriamente, nel 2022, in un dibattito politico, dell’abisso della morte?) o le proteste di Conte dinanzi all’accusa di essere «un antiatlantista e antieuropeista» (lui che fino a pochi anni fa si definiva orgogliosamente populista e sovranista) o ancora le critiche di Di Maio, quello che voleva il referendum sull’euro e andava a braccetto con i gilet gialli, sul rischio di «disallineare» l’Italia dalle sue alleanze tradizionali, dalla Nato e dall’Unione europea.
È venuto il momento di domandarsi quanto sia giusto, utile e anche deontologicamente corretto fingere di prendere sul serio tutto ciò. E quanto invece proprio questa reiterata finzione, per malafede o per una malintesa idea di imparzialità (molto più la prima che la seconda, a occhio), abbia contribuito a rendere il nostro dibattito pubblico quello che è, precipitandolo irrevocabilmente nell’abisso della farsa.