La farsa sul Di Maio liberaleIl nuovo centro draghiano non può essere un dopolavoro per populisti falliti

Una nuova forza liberal-democratica ha senso solo se rifiuta tutti i bipopulisti, quelli di destra e quelli di sinistra, altrimenti ci teniamo le attuali coalizioni

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Il novantanove per cento delle polemiche politiche corrisponde ormai alla seguente formula: «Con che coraggio dici adesso le stesse balle che ho detto io fino a ieri, dopo avermi dato del bugiardo per tutto questo tempo?». L’ultima grottesca diatriba sulle qualità, la maturazione e l’acquisita autorevolezza di Luigi Di Maio, ovviamente, non fa eccezione.

L’aspetto più surreale della vicenda riguarda la serie di articoli e retroscena, ma anche interviste in chiaro (da ultimo Giovanni Toti ieri al Foglio), in cui gli aspiranti costruttori del nuovo centro liberaldemocratico, riformista, draghiano o comunque lo si voglia definire hanno pensato bene di aprire le porte proprio all’attuale ministro degli Esteri, fino a ieri considerato il simbolo stesso di tutto ciò che una politica riformista e liberaldemocratica avrebbe dovuto combattere. Fortunatamente Carlo Calenda si è subito chiamato fuori da un simile delirio, e gliene va dato atto.

D’altra parte, la suggestione giornalistico-letteraria dell’ex leader grillino che chiude la sua parabola approdando in una sorta di nuova Udeur esercita da tempo un fascino irresistibile su analisti, sondaggisti e commentatori. Evidentemente, a forza di leggerne e sentirne parlare, a qualcuno dev’essere apparsa una linea politica credibile.

Prima che lo scherzo ci prenda la mano, è dunque utile spiegare a chi eventualmente ci fosse cascato che anche il solo evocare l’ipotesi rappresenterebbe per qualsiasi formazione di area liberaldemocratica un suicidio paragonabile solo, nella storia della politica italiana, all’accordo tra Mario Segni e Roberto Maroni nel 1994 disdetto il giorno dopo da Umberto Bossi. Mossa con cui il leader referendario, accreditato fino a un attimo prima dai sondaggi di consensi oscillanti tra il 180 e il 200 per cento, riuscì a bruciarli così bene e così rapidamente che alle elezioni di due mesi dopo arrivò appena al 4 per cento, e lui stesso, sconfitto nel suo collegio, entrò in Parlamento solo grazie al recupero nella quota proporzionale (che avrebbe voluto abolire).

Se c’è infatti una ragione per sostenere un’eventuale alleanza, contenitore, formazione liberaldemocratica alle prossime elezioni, e sottolineo se, sta proprio nella possibilità che rappresenti l’unica alternativa al bipopulismo, l’unico modo a disposizione dell’elettore per segnalare il rifiuto di tutti i populismi e di tutti i populisti, dopo la durissima lezione ricevuta in questa legislatura. Ma se l’alternativa a coalizioni di destra e di sinistra ugualmente ostaggio dei populisti diventa una specie di dopolavoro per populisti falliti, tanto vale tenersi gli originali.

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