Un napoletano antifrasticoLa leggerezza di La Capria, lo scrittore capace di godersi la vita e di ridere della morte

Era allegro, serafico, scanzonato e sornione. Abitava una regione intellettuale senza tempo, sospesa tra cielo e terra, impermeabile agli affanni, ai rimpianti alle inquietudini e al rancore

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Dudù La Capria era l’allegria, il sorriso permanente, il buonumore, la speranza, la saggezza, il gusto della vita. Era l’incarnazione vivente della bella giornata. Lo scrittore che meglio ha descritto l’anima napoletana, il mito del mare e del sole, era davvero un uomo speciale, attento agli altri, curioso della vita, indulgente quanto basta, indifferente quanto serve e comunque sempre pronto a dispensare intorno a sé i suoi sorrisi sornioni, pieni di stupore, facili all’empatia.

Per essere un napoletano, anche se era un napoletano espatriato, era dotato in eccesso di «quell’intelligenza sottile di un popolo che ne ha visti altri», per riprendere la famosa formula utilizzata da uno scrittore francese per definire un suo conterraneo. E per essere uno scrittore italiano, era straordinariamente dotato del senso della misura, dell’armonia, della sicura cognizione del limite che regala a chi l’esercita l’indulgenza nei confronti del prossimo, ingrediente sovrano della buona letteratura, e che gli facilitava grandemente l’arte sublime di saper sorridere della vita, delle sue ingiustizie, della sua inclemenza e della sua ferocia, mantenendo la capacità di prendere in giro innanzitutto sé stessi. 

Per questo Dudù La Capria (per questo) sapeva offrire ai suoi molti amici, giovani, meno giovani, vecchi, trapassati e a venire il senso pieno di un legame indefettibile, unico, speciale, anche se li vedeva una volta l’anno, anche se non sapeva bene cosa facessero, cosa pensassero, come vivessero. Dudù La Capria era una giornata di sole, un vaso di gerani fioriti, una primula sempre verde, un albero grondante di limoni come quelli che coltivava sulla terrazza del suo attico a Palazzo Doria, sospeso tra il cielo e le rovine romane, con il Pantheon sullo sfondo, e mai altro luogo poteva indicare meglio l’essenza mitologica della sua vita, e fungere da insegna della sua stessa esistenza.

Poi c’era Capri, l’isola magnifica il cui nome era contenuto nelle lettere del suo cognome, e che lui si portava dietro, si teneva dentro, come lo scoglio di Fontelina da quale tuffarsi e rituffarsi, come i mille gradini da scalare per arrivare al poggio sul mare di Tiberio che per decenni ospitò il nido suo e di Ilaria, il suo rifugio, il luogo eletto delle sue estati interminabili e felici.

Quella casa, che torna come un sogno nelle foto dell’amico Lorenzo Capellini, era stata venduta, dopo essere stata forse disertata per anni causa senectutis, ma era rimasta la stella fissa della sua costellazione interiore. E infatti a Capri Dudù La Capria tornava e ritornava ogni anno, ma senza nostalgia, senza rimpianti, perché era un uomo dotato di saggezza e pieno di allegria, un uomo che amava e sapeva amare la vita, nonostante il dolore, gli acciacchi, la fatica, e la morte delle illusioni.

A Capri infatti Dudù La Capria ritrovava il suo elemento, lo splendore meridiano, la bellezza, la naturale gloria dell’arte come prodigio spontaneo, di cui occultare pervicacemente la fatica e gli sforzi necessari a farla apparire tale (e rileggete una volta per tutte “Lo stile dell’anatra”, per capire quanto per lui scrittore contasse l’estetica del sussiego). A Capri Dudù La Capria credo ritrovasse la versione più risolta della fedeltà a se stesso. E infatti ogni volta che sbarcava sull’isola per il premio Malaparte, di cui era presidente, il favoloso premio letterario internazionale fondato da Graziella Lonardi e resuscitato dieci anni or sono dalla nipote di quest’ultima Gabriella Buontempo, con l’aiuto un mecenate generoso come Michele Pontercorvo e la sua famiglia proprietaria della Ferrarelle, quando si arrampicava sulle rampe del Gatto Bianco o si sedeva sulle terrazza del Quisisana, quando risaliva da Punta Tragara la via Camerelle, circondato dalle attenzioni dei suoi amici scrittori, come Emanuele Trevi e Silvio Perrella, aveva il cuore in festa.

Bisognava vederlo quant’era contento. Bisognava guardarlo mentre annuiva restituendo i saluti, o sorseggiando un calice di vino bianco; bisognava studiarne le rughe misteriose che con gli anni moltiplicavano i loro solchi, per capire come il passare del tempo lo lasciasse perfettamente indenne, quasi che Dudù abitasse una regione senza tempo, sospesa tra cielo e terra, impermeabile agli affanni, ai rimpianti, alle inquietudini e al rancore.

Un giorno, pensate, era l’ottobre del 2015, sull’isola pioveva a dirotto, aspettavamo l’arrivo dello scrittore norvergese Karl Ove Knausgård, quello dell’autobiografia quotidiana in presa diretta sotto forma di diario infinito pubblicato in più volumi da Feltrinelli, e ci ritrovammo in una saletta del Municipio di Capri col il suo amico architetto per disegnare il monumento funebre che avrebbe dovuto adornare la sua ultima dimora.

L’uomo più allegro del mondo, lo scrittore apparentemente più serafico del secondo Novecento, il napoletano più blasé, più scanzonato, più sornione e meno superstizioso che avessi mai incontrato, si divertiva come uno scolaretto a tratteggiare con un pennarello le perfette dimensione del suo cenotafio. E nel farlo, sorrideva tranquillo tra sé e sé, pensando a chissà cosa l’aspettasse, e sorridendo mentre cercava con lo sguardo i suoi amici, quasi volesse invitare la morte a entrare anche lei nel novero della compagnia dei pochi eletti, quasi cercasse di irretirla per chiederle di far parte del gruppo, vezzeggiandola e prendendola un po’ in giro come succede quando ci si vuole bene. E pensare che era pure napoletano. Un napoletano senza ombre, un napoletano antifrastico.

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