Ho sempre creduto che la soglia dell’adultità fosse a quarant’anni: tutto quello che fai prima non vale, non fa media, non è rilevante (sì, lo so: Orson Welles e altre dodici eccezioni che corriamo tutti a citare).
Ora, però, guardandomi intorno e vedendone l’abuso e il trionfo a trent’anni dalla sua prima apparizione in un articolo di giornale, mi chiedo se si possa dichiarare adulto il concetto di post-verità, evidentemente pronto a passare dal campionato delle brillanti promesse a quello dei soliti stronzi.
La demolizione dei fatti è cominciata con la sparizione dei numeri. L’ultimo posto in cui sono rimasti sono le dirette Instagram: qualche settimana fa il più importante attore italiano era in diretta con l’account Instagram del più venduto quotidiano italiano, e insieme totalizzavano ben quattrocento spettatori.
Fissavo il contatore e pensavo: ma chi glielo fa fare? Sì, lo so: i giornali, nel disperato inseguimento dei social, impongono la diretta Instagram nel pacchetto, tu vuoi la pagina di carta – che fa prestigio ma nessuno legge – sul tuo nuovo film, ma io voglio la diretta Instagram, che magari prima o poi mi trasforma l’account in quello della Ferragni, e a quel punto guadagna Zuckerberg e non il giornale, ma è un problema che ci porremo quando si presenterà.
Lo so come si attiva il meccanismo, ma quel che è interessante è a chi venga in mente di attivarlo; considerato che non ci fa una bella figura nessuno. Si fa tanto per millantare rilevanza, e poi ci si fa vedere nudi e infreddoliti con quattrocento miseri spettatori?
L’altra sera il marito della Ferragni ha fatto una diretta Instagram per presentare la sua nuova canzone, c’era anche la moglie, avevano sessantamila spettatori (ed era quasi l’una di notte, non esattamente un orario di punta); poi però non si poteva stare collegati in più di quattro, occorreva far spazio al tizio che canta con lui, e quindi Chiara (che era in un collegamento separato, trovandosi al mare) si è sconnessa. Poco dopo è apparso un impietoso commento: è andata via Chiara e hai perso trentamila spettatori. (I trentamila rimasti erano comunque tantissimi, ma resta il fatto che ormai le dirette Instagram sono tra gli ultimi luoghi novecenteschi dei quali conosciamo i numeri).
Poiché nessuno paga più niente, anche i numeri delle vendite dei libri (rilevamenti ai quali devi essere abbonato, e che ci si guarda bene dal diffondere: se vogliamo millantare rilevanza, dobbiamo far credere al pubblico che i libri si vendano a milioni) sono trattati come un mistero filosofico.
L’altro giorno ho fatto un tweet in cui facevo notare che sì, il libro di Renzi era primo in classifica, ma non era una buona notizia per il mercato editoriale: aveva venduto poco più di settemila copie, un settore in cui il primo in classifica vende settemila copie è un settore morto.
Poiché se a nessuno frega dei fatti figuriamoci se gli frega di qual è il punto, mi sono arrivate le risposte più assurde, gente che linkava articoli di gennaio sul fiorente mercato editoriale, persino un sito di pizzini che ha fatto l’elegantissimo titolo «Sui quotidiani è tutto un fiume di saliva per le vendite del libro di Renzi, lo smonta Guia Soncini». Invece di dire la verità, cioè che ero invidiosa delle sue settemila, io che ci metto un anno a venderle.
Nel frattempo sono arrivati i dati della settimana successiva, che dimostrano il talento di Renzi e del suo editore (Piemme) nello scegliere la settimana in cui uscire. Quella scorsa a Renzi è riuscito d’esser primo con settemila copie; questa sono usciti un po’ di gialli e i numeri sono risaliti: il primo di questa settimana, Joël Dicker, è primo con quasi trentatremila copie (invidissima).
Ogni volta facciamo finta di non sapere i numeri perché in fondo l’ha detto anche Einstein che tutto è relativo, e se diciamo «ristampa» possiamo darci un tono, e c’è sempre qualche autore che ha venduto cento copie e annuncia una ristampa come se fosse un segno di bestsellerismo e non del fatto che l’editore aveva fatto una prima tiratura di quindici copie, e io ogni volta mi chiedo: ma non lo sanno che chiunque bazzichi il settore correrà a guardare i dati e dirà mamma mia che imbarazzo?
Ogni volta qualcuno mi risponde: eh ma sul pubblico non del mestiere fa effetto. Eh ma se avessi un pubblico non del mestiere forse venderesti più di cento copie, no? O forse gli editori mentono agli autori? Forse sono tutti convinti davvero d’essere Joël Dicker?
Qualche tempo fa una psicologa dell’Instagram ha annunciato ai follower che, nella settimana d’uscita, il suo libro aveva venduto trentamila copie. L’ha annunciato il venerdì, quindi coi dati a disposizione da un giorno e mezzo, quindi consapevole d’averne vendute seimila (tantissime, invidissima).
Il dibattito che ne è seguito in quella fondazione culturale che è il mio telefono affrontava molti punti. La psicologa è forse l’unica autrice di parecchi libri a non sapere che i bollini promozionali e le pubblicità si fanno col numero di copie stampate, non con quello delle copie vendute, e che quindi bisogna tenersi sul vago e che dichiarare un venduto di trentamila è la versione cuoricinabile del falso in bilancio? La psicologa è vittima d’una menzogna dell’editore che le ha detto «ne hai vendute trentamila», e poi quando lei pretenderà royalties conseguenti chissà come glielo spiegherà? Andreste a farvi curare da una psicologa così insicura da bluffare sulle vendite?
Qualche tempo dopo uno scrittore molto venduto, con un libro all’epoca già uscito da qualche mese, è risalito nelle vendite (sarà andato in tv, mormora la mia invidia mentre pieni di pianto ha gli occhi). Mentre ero lì che mi mangiavo le mani guardando i dati di vendita, egli ha giustamente annunciato il successo ai propri amici di Facebook: il libro è risalito nelle vendite, è tornato in classifica, all’ottavo posto della generale, e va in ristampa.
Nei commenti, compare un mortale: uno di noi carneadi, uno che aveva annunciato una ristampa dopo aver venduto duecento copie, e i suoi amici di Facebook erano corsi a felicitarsi (ma non erano evidentemente corsi a comprare il libro: un altro dei pochi numeri visibili oggi sono gli amici di Facebook, ragione per cui tutti siamo disposti a chiamare «amici» migliaia di sconosciuti; sennò sembro solo al mondo, sennò un domani un libro a chi lo vendo, se non ho i like su cui contare).
Commenta il mortale: bravo, non c’è parola più appagante di «ristampa»; risponde quello, col tono con cui Lucio Dalla diceva «siamo dèi, figli del sole, invece tu chi sei, tuo padre è stato il dolore»: «sì, assieme a “nella generale”». La mia è una ristampa da quattromilaecinquecento copie vendute in una settimana, caro lei. Non c’è niente di peggio, in un’epoca impegnata a far finta che i numeri, le classi sociali, i fatti non esistano, che incontrare qualcuno così maleducato da ricordarti che altroché se esistono.
Il mio maleducato preferito è un autore televisivo del Novecento, quel secolo in cui non esisteva la frammentazione. Ogni volta che qualcuno se la mena con un successo apparente di questi minuscoli del presente, in cui si dichiarano trionfi per programmi che non arrivano a due milioni di spettatori, lui rievoca quella volta che un dirigente Rai arrivò minaccioso a dire che, se continuavano così, quel fallimento di programma che stavano facendo sarebbe stato chiuso. Era quasi una quarantina d’anni fa, e quindi questo è un aneddoto quasi adulto. Il programma lo guardavano dodici milioni di persone.