Nove milioni di elettori che domenica si recano alle urne sono un test mediamente importante per capire lo stato di salute dei partiti e l’umore degli italiani nel mezzo di una brutta guerra e di una crisi economica preoccupante. Mediamente significativa perché si tratta di comunali e non di regionali; non è in gioco la poltrona di sindaco delle più grandi città italiane, a parte Palermo e Genova.
Tuttavia siamo a un bivio, al countdown per le Politiche (tra meno di un anno si vota se verrà confermata l’indiscrezione che si terrà l’election day con le regionali il 28 maggio 2023). Una prova reale, non più sondaggi, della forza dei partiti all’interno delle due coalizioni di centrodestra e di centrosinistra. E anche del peso del potenziale terzo polo che propone Carlo Calenda (nel capoluogo siciliano, per fare l’esempio più significativo, Azione e +Europa sostengono una candidatura terza, quella di Fabrizio Fernandelli).
Mentre nel cosiddetto campo largo si tratta solo di capire dove si ferma l’asticella del Partito democratico come primo partito, dall’altra parte i giochi sono tutti aperti. I voti di lista potrebbero segnare il reale sorpasso di Fratelli d’Italia ai danni della Lega. E se questo avverrà in realtà del Nord, in particolare lombarde come Monza, Lodi, Como, Sesto San Giovanni, vorrà dire che per Giorgia Meloni si aprirà la corsia preferenziale per la candidatura a Palazzo Chigi. Questo però è uno scenario scritto sulla carta: più crescerà lei e maggiori saranno le resistenze degli altri. Non solo di Salvini, che si vedrebbe detronizzato, e dell’ala governativa del Carroccio. Anche Berlusconi non reggerebbe alla prova del Partito popolare europeo e dei moderati di Forza Italia. Matteo e Silvio dovrebbero cancellare la regola non scritta secondo cui il primo partito della coalizione esprime la premiership. Solo che questo valeva quando erano loro a guidare numericamente il centrodestra.
Adesso la musica potrebbe cambiare sulla base dei voti di lista e della vittoria in alcuni casi specifici. Prendiamo Verona, in terra leghista del governatore Luca Zaia. Qui Meloni ha voluto candidare il sindaco uscente Federico Sboarina, che la scorsa volta era in quota Forza Italia e in questi anni è stato corteggiato dalla Lega. Ora è passato a Fratelli d’Italia un ritorno di fiamma (è il caso di dirlo visto il suo passato di militante di An).
Salvini ha fatto buon viso al voltafaccia del primo cittadino del capoluogo scaligero, incassando un accordo che prevede il bottino del vicesindaco e di cinque assessori di peso. Forza Italia invece l’ha presa male, spaccando la coalizione e sostenendo un arcinemico di Salvini, l’ex sindaco sceriffo Flavio Tosi, che nel 2015 è stato cacciato dal Carroccio perché si era messo di traverso alla candidatura di Zaia alla guida del Veneto.
Verona non è l’unica città in cui il centrodestra è spaccato. Lo è anche a Messina, ma nella città sullo Stretto la contraddizione si inverte: Fratelli d’Italia e Forza Italia hanno un candidato contrapposto a quello della Lega. A sceglierlo è stato il pirotecnico sindaco uscente, il re delle dirette facebook Cateno De Luca, che Salvini vorrebbe lanciare in autunno a governatore siciliano. E qui è scoppiato l’altro dramma nel centrodestra, perché proprio alla più alta poltrona di Palazzo d’Orléans Meloni vuole riconfermare Nello Musumeci, contro il quale è schierato tutto il resto della coalizione.
È palese che lo stato dell’arte della coalizione, che i sondaggi danno per vincente alle Politiche 2023, è tutt’altro che pacifico. E non solo a livello di vertice: la guerra è nel territorio, da nord a sud, passando per il centro. Truppe che si muovono, amministratori che zompano da un partito alleato all’altro, parlamentari che si danno da fare perché dai voti che riescono a portare alla lista dipende la loro ricandidatura alla Camera o al Senato. Poi ci sono quelli che sentono odore di potere e si immaginano già con la giacca di ministro o sottosegretario, presidente di commissione o di un ramo del Parlamento.
Infine, i capi che salgono sull’unico palco comune di questa campagna elettorale, come quello di Verona. Meloni e Salvini si sono abbracciati, hanno scherzato, lei ha colto l’occasione della città Shakespeariana per rassicurare gli elettori che non faranno la brutta fine di Romeo e Giulietta. Ma su quel palco non c’era nessun amore e non c’era nessun berlusconiano. Tutta scena (Salvini pur di non far vincere Tosi e non farsi fregare Verona abbraccerebbe pure Zelensky).
Le faglie sono tante nel centrodestra, e profonde. Dall’altra parte, non è chiaro quanto saranno capaci di approfittarne, se saranno tanto intelligenti da mettere su una credibile area Draghi, se Enrico Letta si dimostrerà un bravo giocatore d’azzardo scommettendo sui 5 Stelle (a Palermo, dove Giuseppe Conte è stato accolto con grande entusiasmo dal popolo del reddito di cittadinanza, la prova principe).
Per non parlare del passo falso di Italia Viva siciliana che a Palermo sembrava sostenere l’uomo del centrodestra Roberto Lagalla, prima che Matteo Renzi sconfessasse i suoi uomini locali. Poi ci sono le mosse spiazzanti di Carlo Calenda cui non dispiacerebbe Letizia Moratti alla presidenza della Lombardia nel caso in cui non si trovasse un accordo sul nome di Carlo Cottarelli.
Che Meloni fallisca o meno il sorpasso, il centrodestra entrerà in una fase di fibrillazione enorme. Altro che Romeo e Giulietta a lieto fine. Saremmo al Molto rumore per nulla, che Shakespeare ha ambientato a Messina. Smentendo il luogo comune che la Sicilia è il laboratorio che anticipa la politica nazionale.