Non è l’Arena, è la regolaIl comizio della portavoce di Lavrov dimostra che l’appeasement è più pericoloso della fermezza

Dobbiamo essere onesti: lo spettacolo andato in onda domenica non è molto diverso da quello che vediamo abitualmente nei talk show e che leggiamo regolarmente su diversi quotidiani

di Craig Marolf, da Unsplash

Per quanto possa apparire bizzarra un’intervista televisiva alla portavoce del ministero degli Esteri russo, via Skype, in cui a essere collegato dalla piazza Rossa è il conduttore italiano, dobbiamo essere onesti: non è che faccia una gran differenza con quello che vediamo abitualmente in tv e che leggiamo regolarmente su diversi quotidiani.

Che differenza c’è, infatti, tra intervistare Maria Zakharova, via Skype, da Mosca, e intervistare Alessandro Orsini in studio a Roma, a parte il fatto che nel secondo caso si evitano problemi di connessione? Che differenza c’è tra l’ultima puntata di «Non è l’Arena» e l’ultima puntata di altri cento talk show abitualmente in onda su La7, Mediaset e Rai? Che differenza fa ascoltare le veline del Cremlino – sulla guerra che non sarebbe affatto cominciata il 24 febbraio, cioè con l’invasione russa, ma sarebbe in corso «da otto anni»; sulla «russofobia» dell’Occidente; sui «nazisti ucraini» – direttamente dalla portavoce ufficiale del ministero degli Esteri russo, anziché da giornalisti, generali e geopolitologi italiani?

Il problema non è quanto e come Massimo Giletti abbia saputo tenere testa a Zakharova (pochino, in verità), il problema è il gran numero di cose su cui Zakharova e Giletti erano proprio d’accordo, e con loro una larghissima parte dei giornalisti e degli opinionisti italiani.

Nel corso dell’intervista, infatti, il conduttore si è detto d’accordo su ognuno dei più controversi presupposti della posizione russa, dichiarando in sostanza che la sua interlocutrice aveva ragione su tutto, dagli accordi di Minsk non rispettati, solo dall’Ucraina, par di capire («Io non le sto dando torto, i patti di Minsk non sono stati rispettati, su questo le do ragione…»), alle persecuzioni subite dai russofoni nel Donbass (che quindi, implicitamente, pareva quasi che i russi avessero il diritto di invadere) e perfino sulle colpe e la cecità dell’Occidente, che non avrebbe voluto vedere le malefatte del regime ucraino (e qui almeno Giletti, bontà sua, ha avuto il buon gusto di aggiungere che in compenso non aveva voluto vedere nemmeno i massacri compiuti dai russi in Cecenia).

Concesso tutto questo, cioè quasi tutto, il conduttore si limitava dunque a pregare la sua interlocutrice di far parlare la diplomazia e spiegare al pubblico, ora che il Donbass era in larga parte conquistato, cos’altro volessero per far tacere le armi. Che è sostanzialmente la posizione di un bel pezzo non solo del giornalismo, ma anche della politica italiana (da Giuseppe Conte a Matteo Salvini, per citare solo i più espliciti), e che si può riassumere nel vecchio motto: chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto, scordiamoci il passato. Basta che la guerra finisca subito e che noi si possa stare tranquilli, senza preoccupazioni, senza inflazione e possibilmente col condizionatore acceso. E se adesso pensate che stia esagerando, andate a rivedere l’intervista sul sito di La7 e ascoltate con le vostre orecchie quante volte Giletti ripete alla portavoce di Sergej Lavrov che ha ragione su quanto accaduto in passato, sui torti dell’Ucraina e sulle colpe dell’Occidente, ma che ora, insomma, bisogna guardare avanti («Oggi chi ha sbagliato ha sbagliato, ma non possiamo continuare a fare la guerra, date forza alla parola»).

Il bello, si fa per dire, è che davanti a una simile offerta, decisamente generosa, la reazione della portavoce russa è stata una sequela di offese all’indirizzo del conduttore, del quale non ha esitato a dire che ragionava come un bambino o come uno appena arrivato da Marte, mentre ribadiva che la Russia non aveva pianificato nessuna invasione, che era stata costretta a intervenire dai crimini del regime nazista di Kiev e che non si sarebbe fermata fino a quando non avesse portato a termine l’opera di denazificazione del paese. Altro che cessate il fuoco e trattative di pace.

Tra tanta reciproca comprensione per le dubbie ragioni di Mosca, ben poco è stato detto invece nell’intervista sulle migliaia di civili uccisi, stuprati e torturati (se si eccettua un riferimento volante a Bucha, peraltro nel mezzo di una frase raggelante come «se lei si vuol prendere il Donbass, che c’entra Kiev, che c’entra Bucha…»), sulle deportazioni, sui campi di concentramento – pardon, sui campi di «filtrazione» – o sulle tonnellate di grano rubate agli ucraini e rivendute all’estero sotto il ricatto della carestia, o sul fatto che otto anni fa, quando secondo Mosca sarebbe cominciata davvero la guerra, sono stati i russi a occupare e annettere militarmente la Crimea, cioè un pezzo dell’Ucraina, per poi cominciare a inviare soldati e agenti senza divisa a destabilizzare il Donbass, e da lì ricominciare lo stesso gioco. Che è esattamente quello che faranno domani con quel poco o tanto di Ucraina rimasto ancora libero, se i numerosi fautori dell’appeasement, non solo in Italia, riusciranno a raggiungere il loro obiettivo: riconoscere a Mosca tutto o quasi tutto quello che è riuscita a conquistarsi con la violenza, disarmare gli ucraini e siglare l’ennesimo finto accordo di pace, o di tregua, in attesa del prossimo attacco.

Sarebbe una vergogna. Ma il bello, si fa per dire, è che per Vladimir Putin non sarebbe nemmeno abbastanza, almeno a giudicare dal modo rabbioso e insultante con cui la portavoce del ministero degli Esteri russo ha reagito a un simile assist. A dimostrazione – una volta di più – di come non si possa ragionare con una tigre mentre si tiene la testa tra le sue fauci. Un’antica lezione che non avremmo dovuto dimenticare.

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