Non si era ancora mai vista una campagna elettorale a sostegno di nessuno: ma Giuseppe Conte ha infranto anche il record del tour elettorale più inutile della storia.
Il fatto è che da giorni l’avvocato di Volturara Appula se ne va in giro per l’Italia toccando soprattutto centri piccoli per sostenere quei pochi grillini candidati a sindaco oppure in città più grandi dove il candidato è immancabilmente del Partito democratico o comunque non suo, non essendoci nessun grillino nei 26 capoluoghi chiamati al voto.
Talvolta accolto da contestazioni (Jesi, per esempio), l’ex presidente del Consiglio si trastulla stringendo le mani dei pochi militanti pentastellati che ancora resistono nel bunker delle loro fantasie pregresse, dalla scatoletta di tonno all’uno vale uno e simili reliquie di un passato vincente ma effimero.
Si è parlato perciò di flop tour, non solo per le poche presenze in piazza ma specie per l’assenza totale di una linea comprensibile: per esempio, nella Genova di Beppe Grillo (mai citato), Conte è andato per sostenere Ariel Dello Strologo, campione della coalizione di centrosinistra imperniata su quel Pd nel recente passato accusato dai grillini di aver favorito i Benetton dopo la strage del ponte Morandi: metafora concreta del solito camaleontismo avvocatesco.
È chiaro che lui per primo sa che queste amministrative per il M5s saranno una cicuta da trangugiare ed è per questo che è alla ricerca di un antidoto al veleno della disfatta in grado di rianimare il cadavere. Ma che fare il giorno dopo la batosta che invano egli cercherà di minimizzare?
La tentazione di far saltare il tavolo gridando un disperato muoia Sansone con tutti i filistei, è quella che gli insufflano all’orecchio soprattutto i senatori del Movimento 5 stelle (e pensare che storicamente i membri del Senato erano i più saggi) ma c’è anche chi vede dietro la tentazione sfascista quel Rocco “Rasputin” Casalino che non tocca più palla da quando il suo dante causa è in disgrazia.
Uscire dal governo, insomma, magari il 21 giugno quando l’avvocato del popolo ha in animo di presentare in Parlamento la famosa mozione anti-armi, oppure quest’estate quando gli effetti della crisi economica potrebbero diventare insopportabilmente pesanti, in un Papeete stavolta contiano dai tratti iper-landiniani, un Papeete non meno disperato di quello salviniano.
Tuttavia l’uomo non sembra avere il coraggio di uno strappo netto. Perciò vagheggia una via di fuga dietro un’alchimia molto Prima repubblica, il mitico appoggio esterno.
Forse non ha capito che Mario Draghi non è tipo da gioco delle tre carte: se il primo partito del Parlamento uscisse dalla maggioranza provocherebbe una smagliatura clamorosa e a quel punto sarebbe assai improbabile che il presidente del Consiglio accettasse di tirare a campare, si andrebbe dritti a elezioni a ottobre, ma come ha notato Matteo Renzi «il M5S è pieno di parlamentari che si taglierebbero un piede prima di andare a votare perché sennò devono tornare, loro, a prendere il Reddito di cittadinanza».
Senza contare che Luigi Di Maio e Stefano Patuanelli non se ne starebbero con le mani in mano a veder ruzzolare il governo solo perché a Casalino prudono le mani e come se non bastasse sembra che il Pd in qualche modo gli abbia fatto capire che se buttasse giù Draghi potrebbe dire addio ad alleanze elettorali future.
Strada sbarrata, dunque. Ma è anche vero che se continua a sostenere il governo Draghi, tradendo ogni giorno un nervosismo di fondo, un’ansia da prestazione repressa, un’agitazione interiore mal dissimulata,
Conte finisce per smarrire ulteriormente la sua funzione, la sua fisionomia, resta boccheggiante alla ricerca di una ragione che possa interessare l’elettorato perduto ed eventualmente recuperarlo. Se rompe, avrà contro Draghi, Di Maio, persino il Pd. Se non rompe, perderà sempre più senso e consensi. Parafrasando Ovidio, si potrebbe dire né con il governo né senza il governo: Giuseppe Conte è davanti a un bivio di due strade senza uscita. In gabbia.