Nullità per il futuroIl Grande Vuoto dei politici riciclati e la speranza dei riformisti

Negli ultimi anni abbiamo visto tante nuove sigle senza visione né progettualità. Di solito la bolla scoppia alla prima puntura delle urne, come succederà a Di Maio. Renzi è pronto ad approfittarne e anche il terzo polo di Calenda potrebbe avere un destino diverso

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Dalla fine della Democrazia Cristiana e dopo Mani Pulite ho avuto la (s)ventura professionale di seguire tutti i tentativi di far risorgere la Balena Bianca. Passando poi per le microscissioni di Forza Italia/Partito delle libertà, le invenzioni di Silvio Berlusconi, fino al tentativo macroniano di Matteo Renzi. Mi sono risparmiato per fortuna la miriade di scissioni della sinistra, e anche quelle non hanno portato a nulla. 

Ricordo le sensazione di noi cronisti quando uscivamo dalle conferenze stampa in cui veniva annunciata la nascita di un nuovo Centro, di volta in volta reduci democristiani, berlusconiani, più o meno liberali ma comunque sempre moderati. La sensazione era di vuoto, altro che Grande Centro. Grande vuoto. E cominciava la caccia dei cinici retroscenisti alle notizie sugli accordi elettorali, sulle desistenze nei collegi, insomma i sempre eterni inciuci. E non si sbagliavano mai a seguire queste piste polverose e notizie che venivano definite croccanti.

Così venivano sorvolate le pagine dei taccuini (oggi si usa lo smartphone) dove rimaneva lettera morta la parola FUTURO ripetuta fino alla nausea dal politico di turno. 

Fateci caso, non è cambiato niente. C’era chi come Gianfranco Fini l’ha messa nel nome della sua creatura politica (Fare Futuro) dopo il «che fai mi cacci» urlato a Silvio Berlusconi all’Auditorium di Santa Cecilia. Lo stesso ha fatto Luigi Di Maio che si è inventato “Insieme per il futuro” – “quello della sua poltrona”, ha sputato veleno il suo ex sodale Alessandro Di Battista – e i suoi seguaci sono stati battezzati futuristi (per motivi di spazio nei titoli dei giornali, non lambiccatevi il cervello sul senso storico). Che con Filippo Tommaso Marinetti non hanno nulla che fare tranne per la velocità di ricollocarsi per essere rieletti e per lo sprezzo del pericolo di finire come sono finiti tutti i tentativi precedenti: una bolla che è scoppiata alla prima puntura delle urne elettorali. 

Prendendo a prestito il titolo di un fortunato e divertente film, i fantomatici Centri rischiano di essere schiacciati come tanti gatti in tangenziale all’ora di punta. 

Abbiamo perso il conto di quanti centri e centrini agognano rappresentanza politica, senza cultura politica, senza una proposta forte unificante, senza un leader federatore riconosciuto. Con la pretesa di non allearsi ma in attesa di accordi per il capetto di turno e i fedelissimi. 

Nessuna novità, appunto, è sempre stato così: grandi slanci, il futuro dentro il pugno di una mano come le mosche. Tutti che vogliono parlare con tutti. Centristi che vogliono allearsi con altri centristi, ma intanto si infliggono danni reciproci. 

La nascita del gruppo parlamentare di Luigi Di Maio, ad esempio, ha causato lo scioglimento alla Camera del gruppo di Coraggio Italia, quello che fa capo ai due sindaci Giovanni Toti e Luigi Brugnaro. Ma come, non sono i sindaci gli interlocutori privilegiati di cui ha parlato il ministro degli Esteri? 

Per la verità di sindaci in ascolto di Di Maio versione Clemente Mastella non se ne vedono. Tranne alcuni dalle parti di Pomigliano d’Arco. Quello di Firenze Dario Nardella ha detto che non ci pensa di lasciare il Partito democratico. Giuseppe Sala non è un arnese centrista. Insomma, che interesse hanno i sindaci a sostenere una spregiudicata ridotta neocentrista?

Tanta aria fritta, tanti flop annunciati, un vecchio carillon a manovella, tanto ceto politico senza soldati e voti, minoranze per piccole enclave economicamente tranquille. 

Carlo Calenda cerca di fare un’operazione diversa, non sappiamo se ci riuscirà ma intanto tatticamente fa la mossa giusta: se Enrico Letta non si libera dei Cinquestelle double-face, avanti con il Terzo Polo che non può essere l’ago della bilancia oscillante verso il migliore offerente. È l’accusa rivolta a Renzi, ma Renzi ha dimostrato di essere il più lucido politico di questa e della precedente legislatura.

I due ieri si sono incrociati e ignorati a Bruxelles, hanno partecipato all’incontro del gruppo europeo Renew con il presidente francese Macron. Photo opportunity: uno da una parte l’altro dalla parte opposta. Rapporti gelidi. I renziani fanno girare altre foto, quelle dei suoi abbracci e baci con Macron. E avvertono Calenda, ricordando che in questa legislatura chi si è messo contro l’ex sindaco di Firenze è finito male. I nomi sono quelli di Matteo Salvini, di Giuseppe Conte e anche di Elisabetta Belloni che i primi due avevano candidato al Quirinale. Ma Calenda se ne frega dei precedenti, confortato dai dati delle amministrative, anche se li ha ottenuti anche grazie ad alcuni candidati civici. 

Poi ci sono i sondaggi che lo danno stabilmente attorno al 5%, assieme ai radicali di Emma Bonino. In questi giorni ha consultato una credibile società demoscopica che prevede per Azione una crescita ulteriore per settembre, fino all’8% se Calenda continuerà a tenere la barra autonoma e solitaria, fuori dal delirio centrista. Se invece dovesse allearsi con Renzi perderebbe il 2 per cento. Sarà così oppure una vera area liberal-democratica seria e non litigiosa potrebbe ottenere un risultato anche migliore?

In ogni caso, senza un’alleanza con il Pd, se Letta dovesse rimanere agganciato inutilmente ai due moncherini Conte-Di Maio, che se ne farebbero Calenda o altri dell’8 o anche 10 per cento? Ecco che la politica conta.
E poi c’è la questione della legge elettorale. Senza un sistema proporzionale un Terzo Polo rischia l’osso del collo e di fare la fine di Scelta Civica di Mario Monti, uno dei tanti tentativi falliti di gettare sabbia negli ingranaggi del bipolarismo. 

È vero che nel 2013 le due coalizioni erano più robuste e oggi invece sono sgangherate, ma entrano in gioco tante variabili. Per esempio quella del voto utile.

Il paradosso è che bisogna sperare in Salvini, ovvero che il leader leghista si converta al proporzionale e guardi bene i voti del suo partito nei collegi uninominali: potrebbe conquistarne molto pochi, anche al nord, dopo il sorpasso di Fratello d’Italia. 

Quanti ne vorrà Giorgia Meloni? Dovrà andare da lei con il cappello in mano? Potrebbe allora avere interesse a un sistema proporzionale. Sarebbe l’eterogenesi dei fini. Ma è meglio non affidarsi alla buona sorte. In politica non esiste. Di questi tempi poi.

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