Da tempo le notizie sull’andamento della guerra in Ucraina si sono fatte più cupe, alimentando ancor più fosche previsioni sulla durata del conflitto e sul suo esito. Questo ha ringalluzzito l’eletta schiera di analisti, filosofi, politologi e geopolitologi impegnati sin dall’inizio a spiegarci, chi in modo più sofisticato chi meno, che l’unico modo di ottenere la pace è dare a Vladimir Putin tutto o quasi tutto quello che vuole.
Se i sostenitori di questa tesi avessero il coraggio di parlare chiaro, sarei ben lieto di riconoscere che nelle loro posizioni c’è una parte di verità. Se il governo ucraino si rassegnasse a lasciare all’esercito invasore piena libertà di stuprare, torturare e deportare i civili, nonché di derubare il paese di tutto ciò che possiede e produce, dal grano all’acciaio, è molto verosimile che l’intera procedura, non incontrando resistenza, durerebbe meno, e avrebbe pertanto effetti minori, per quanto ci riguarda, sul prezzo della benzina e del gas, oltre che su quello dei generi alimentari, dunque sull’inflazione e sull’economia in generale. Il che può essere considerato un vantaggio, per noi, almeno nel breve periodo, cui fa da contraltare il rischio di incentivare un simile modo di agire in un paese che si trova ai confini dell’Europa (e forse anche altrove).
Dire però che tutto questo occorrerebbe farlo non per noi, ma per il bene degli ucraini e della pace nel mondo, dirlo proprio mentre sui territori occupati proseguono incessanti esecuzioni e deportazioni, dirlo persino dopo che Putin non ha esitato a decorare i soldati di ritorno da Bucha, obiettivamente, rende l’intera discussione semplicemente ridicola.
Di conseguenza, non può stupire il fatto che simili argomenti siano stati adottati da Matteo Salvini o da Giuseppe Conte. Più interessante è domandarsi quanta parte della sinistra italiana, dei suoi intellettuali, militanti e dirigenti, sia finita su quelle posizioni, e quale conclusione bisognerebbe trarne circa la sua storia, la sua evoluzione e la sua natura. È una domanda che mi riguarda personalmente, ma che credo chiami in causa l’esperienza e la coscienza di tanti.
Dai gruppi antagonisti più radicali ai garbati professori che animavano il movimento dei girotondi, infatti, negli ultimi trent’anni a sinistra non si è parlato d’altro che del dovere d’indignarsi (vi ricordate degli Indignados?). Si è gridato al fascismo e si è chiamato il popolo alla resistenza per una ferrovia in val di Susa, per una legge sulle frequenze radiotelevisive o per una tornata di nomine rai.
Si è bollato come immorale il semplice fatto che un leader del centrosinistra si sedesse a discutere di riforme con il leader del centrodestra. E ora che il fascismo ce l’abbiamo davanti sul serio, è tutto un invito a trattare con gli aguzzini e a riscoprire la nobile arte del compromesso. Dopo avere demonizzato chiunque si permettesse anche solo di rivolgere la parola a Silvio Berlusconi, è tutto un invito a sedersi al tavolo con Putin. Gli ardenti e indignati idealisti di ieri, in men che non si dica, sono diventati tutti cultori della Realpolitik, e persino di Henry Kissinger. Facendo il verso a un fortunato pamphlet di una decina di anni fa, si potrebbe dire che il loro motto sia diventato di colpo: disindignatevi!
Quanta parte del fenomeno si possa spiegare con la malafede, i soldi o la dissonanza cognitiva, obiettivamente, può avere un qualche interesse per lo studio dei singoli casi, ma non cambia i termini del problema nel suo insieme. Problema che, per chi viene dalla sinistra e in particolare dalla tradizione postcomunista, per chi ne ha seguito l’evoluzione (ammesso che un’evoluzione ci sia stata effettivamente, a questo punto), si può riassumere in una domanda: non è che l’utile idiota, alla fine, ero io?
Mi rendo conto che questo articolo potrebbe apparire a qualcuno privo di senso. In effetti, non punta a convincere nessuno, anzi. Tutti coloro che condividono anche solo un decimo delle risibili fesserie con cui ogni giorno quotidiani e talk show forniscono alibi alla nostra cattiva coscienza farebbero meglio a passare oltre, perché non è a loro che mi rivolgo. Non è che non mi interessi convincerli: non voglio proprio averci nulla a che fare. Mi interessa piuttosto capire se nel vasto mondo della sinistra, dalle frange più radicali a quelle più liberali, dai centri sociali ai centri studi, vi sia almeno una consistente minoranza di persone che condivida il mio sconcerto e la mia indignazione – stavolta sì, accidenti, è proprio la parola giusta – prima di rassegnarmi a rispondere nel modo più scontato alla domanda del capoverso precedente.