La non-sintassiLa tragica inconsistenza della narrativa di consumo

Scritti tra la Prima guerra mondiale e gli anni del trionfo dei totalitarismi, in Europa e in Russia, i saggi di Hermann Broch anticipano il declino e il decadimento della letteratura quando etica ed estetica si scambiano il posto

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Rileggo Hermann Broch, i suoi saggi: è un modo tra i più sicuri per restare saldo –se si crede nella letteratura, il suo valore essenziale. I saggi scritti tra la vigilia della Prima Guerra Mondiale e gli anni del trionfo dei totalitarismi, in Europa e in Russia, sono fondamentali per intendere la prima e la più grave frattura: quella tra la Prima Modernità, positiva ma minata dall’oltranzismo scientista e storicista, e la Seconda, nata prematura e gracile, così destinata a diventare accademia moderna, e frigida. Broch è il primo a intendere come la frattura metta in pericolo la più popolare delle forme della Modernità: il romanzo; e come a corrodere la forza del romanzo sia quella forma di inconsistenza che dice il Kitsch, e altro non è se non il Postmodern: la “pura narratività”, il non-pensiero del luogo comune (e la non-sintassi), che ha ridotto il romanzo a specchio della inconsistenza e della vanità.

(L’ho già detto e scritto ma vale ripeterlo: la narrativa di consumo c’è sempre stata e sempre ci sarà: e non è quella, in questione. L’inganno della “pura narratività”, avallato dall’ignavia dei post-critici e dalla accondiscendenza delle case editrici, è quello di porsi come letteratura: è questa la questione, ed è ben più seria di quel che sembra. Tutto questo ha una ragione ben precisa che ho mostrato nella pagina del Diario del 9 maggio scorso, a cui rimando. Rimane un fatto: la “pura narratività”, come la sorella gemella, la “pura comunicatività” – la non-saggistica: ne scriverò –, non è e non sarà mai letteratura. Entrambe sono soltanto narrativa di consumo per un pubblico ben preciso: che la produce, la diffonde e la promuove, la legge: tutto tra di loro. È una delle perversioni dell’Età della Comunicazione).

Il saggio L’immagine del mondo nel romanzo (Das Weltbild des Romans), raccolto da Einaudi nel volume Il Kitsch, del 1990, è il più importante tra quelli dedicati da Broch alla questione: primo tra molti, la riteneva fondamentale per il futuro della letteratura moderna e della cultura europea. Scritto come testo per una conferenza tenuta a Budapest e replicata a Vienna, nel 1933, affronta il problema della identità del romanzo nell’età della seconda Modernità: e lo fa agli albori, subito velenosi, della nube detta comunicazione di massa. (È il terreno di cultura del Postmodern, che nasce in seno alle avanguardie, nelle due varianti ormai storiche: cartellonista da Dalì alla Pop Art; e vetrinista: da Duchamp all’Arte Povera). Broch ha ben chiari due fatti: il romanzo, forma della Modernità, è uno strumento di conoscenza e della parte nascosta alla Storia e alla coscienza; nella nuova era che si va allora aprendo l’antagonismo tra le immagini del mondo (diverse per origine, ambito, cultura) avrà il suo campo di gioco sul piano virtuale della comunicazione di massa. Poste queste premesse, diventa semplice intendere il saggiare la questione dell’autore: per B. le immagini del mondo che dice pratico-specialistiche (del commerciante,  dell’ingegnere, del militare, dello scienziato) corrispondono a un sistema di valori determinato, hanno una dignità ben diversa l’una dall’altra ma hanno una cosa in comune: “sono tutte sottoposte a un forte imperativo etico il cui fine (conformemente alla natura profonda dell’eticità) giace nell’assoluto e nell’infinito”. Questa asserzione potrà suonare strana, oggi, in tempi di trasformismo realizzato: pure è in sé indiscutibile – al di là del valore di ciascun imperativo, sia ovvio. Ricordato questo, B. chiarisce: “L’assoluto è tuttavia sempre e soltanto costruzione [il corsivo è mio]; esso si limita a indicare la direzione di un percorso infinito, ma in se stesso è irraggiungibile”. Eccolo, il verbo che è l’essenza della Modernità abbandonata e sempre accesa: costruire, tanto più perspicuo e potente del tecnocratico progettare (“fare progetto”, “sinergia di intenti”, “fare sistema”: termini e locuzioni del tempo di una tecnocrazia priva di un reale imperativo etico-politico). Come si realizza, secondo B., questo imperativo morale che porta al costruire? Ecco, ed è di nuovo una parola perduta, per i viventi nella bolla dell’inconsistenza: “Sempre attraverso un’attività costruttiva che plasma l’immagine del mondo imprimendole una determinata forma [idem] (…) il risultato è sempre un atto di formazione e di costruzione e cioè, nel senso più ampio, un risultato estetico”. Broch ci ricorda i fondamenti di ogni operare e così anche letterario.

Detto questo e dopo lunghe premesse e conseguenti precisazioni, Broch arriva alla questione dell’arte del nostro tempo per affermare quanto dopo Nietzsche è legge: l’arte non è più al servizio di Dio ma della bellezza come valore in sé. Questo pone un interrogativo essenziale: “Ciò significa forse che oggi all’artista si debba imporre il comandamento: «produci bellezza»? (…) È il comandamento di ogni dilettantismo e il suo risultato è il Kitsch”. L’autonomia dell’arte porta inevitabilmente al Kitsch, vale a dire al Postmodern, in tutte le sue declinazioni: “pura narratività” compresa. È la differenza decisiva: l’eteronomia dell’arte e così della letteratura è paradigma della Prima Modernità: è il presupposto dell’arte del romanzo, che rilegge la Storia. Privata del suo statuto di strumento di conoscenza, ogni arte, compresa quella del romanzo, scadono nell’estetismo: il Kitsch, l’arte dell’inconsistenza.

Broch passa quindi a dire della immagine del mondo del romanzo e del suo intento come arte: “il romanzo deve essere specchio di tutte le altre immagini del mondo, che tuttavia sono per esso semplici vocaboli della realtà [idem], come qualsiasi altro vocabolo del mondo esterno. E proprio come fa con ogni altro vocabolo della realtà assunto dal mondo esterno, il romanzo deve inserire e sistemare queste immagini del mondo nella sua specifica sintassi poetica [idem]” (È chiaro che qui B. intende “poetica” in senso, diciamo così, crociano: non nel senso di “poesia lirica”). Siamo al centro della questione e Broch fissa i termini dell’arte del narrare detta romanzo, e vale per il saggio letterario: “l’unitarietà della sintassi poetica solleva, almeno nel concetto, il relativo nella sfera dell’assoluto”: l’impossibile nascosto nella Storia caro al nostro, grande Francesco De Sanctis – per B. nascosto anche alla coscienza (Freud, in agguato). Lo strumento d’ordine e di misura di qualsiasi forma narrativa è la sintassi. “A qualsiasi tipo (razionale o irrazionale) appartengano i metodi poetici utilizzati, il fatto centrale rimane la sintassi (…) Il problema della scelta [dei vocaboli della realtà] acquista tutto il suo significato e la sua importanza soltanto alla luce della sintassi”. Infine, il pensiero definitivo a chiudere la questione: “L’essenza della sintassi, la sua importantissima funzione di creatrice di simboli, consiste proprio nel fatto che attraverso la tensione tra le parole e i fatti inseriti nella connessione sintattica, essa lascia intuire tutto ciò che rimane inespresso, e quindi, in ultima analisi, l’aspetto sovraindividuale della realtà [idem] – di nuovo: l’impossibile della Storia, in attesa di essere disvelato, e per via di letteratura. Ecco  detti il romanzo e il saggio, veri e propri strumenti di conoscenza.

(Tutto quel di cui non si può discorrere, si può raccontare: i Greci lo sapevano bene, con buona pace di Wittgenstein. Raccontare è anche saggiare la realtà e le opere che le fanno da specchio. Per rimanere al romanzo, e per dire in altre parole l’inconsistenza dei post-romanzi della Piccola Nuova Borghesia, ecco per una volta un aneddoto. Franco Cordelli, con quell’aria di fastidio che è ricordo dei passati incendi ed è solo sua, discorrendo della pletora di post-romanzi: Leggi quattro-cinque pagine e capisci subito che tutto quel che vuole è solo scrivere un romanzo. Eccolo, il Kitsch. Non c’è bisogno di aggiungere altro, credo).

La sintassi, dunque. Facciamo un passo indietro: ecco la definizione che Broch dà del modus operandi del Kitsch, alias Postmodern: “ogniqualvolta il fine estetico viene immischiato nell’azione etica [l’atto di conoscenza] o, in altre parole, ogniqualvolta, l’effetto viene inserito e predisposto nell’azione etica, esso agisce come componente dogmatica, sicché l’azione diventa cattiva mentre il suo risultato estetico (inteso in senso lato) diviene brutto”. In altre parole, ogni volta che etica ed estetica si scambiano di posto tra loro si ha quella forma del “brutto” che è il Kitsch. Broch ci dà un esempio lampante per iperbole: “Nerone che suona il liuto davanti ai fuochi pirotecnici dei corpi dei cristiani in fiamme. Ecco il dilettante per eccellenza, l’esteta per eccellenza che è pronto a sacrificare ogni cosa per un bell’effetto”. Ora, parafrasando e tornando al campo del romanzo, anzi, del post-romanzo, si può dire che da buoni scriventi e aspiranti affabulatori, si dedicano alla ricerca dell’effetto con pertinacia. A farne le spese è la sintassi, degna dell’inconsistenza della forma, e così del contenuto: si usa la matita grassa per dare risalto al nulla, con un effetto  di grossolanità che arriva a punte di ridicolo involontario degne dell’avanspettacolo. Le pratiche più diffuse sono quella dell’elencazione, quella interminabile addizione di cose che ricorda i set delle serie televisive americane e le stanze degli scriventi; della nominazione di fantasia oppure cartellonista-pop nominando l’oggetto per la marca commerciale; della similitudine sbrodolata fino a una fricassea di figure; ma le più nefaste sono quelle dell’ambizioso, del novello pifferaio di Hamelin, il quale, alla ricerca dell’effetto che stani le creature dai camping della comunicazione e le induca ratte a seguirlo, torce la sintassi italiana fino ad avvilirla e celebrare le nozze con l’insensatezza. Le ambiziose opere del pifferaio si fanno subito notare per la mole, il tono compiaciuto e la prosa gonfia a zampogna: perfetti esemplari del Kitsch, l’inconsistenza elevata al rango della letteratura. Almeno, questo loro immaginano. 

Hermann Broch, nel bel mezzo della tragedia del tramonto dell’Europa e così dello spegnersi della Modernità, ha colto i primi segni di quel mostro di inconsistenza che è il Postmodern: lo ha detto Kitsch, e nell’accezione divenuta corrente c’è il senso. Ora la bolla dell’inconsistenza è al culmine: prima o poi, esploderà: si potrà tornare a costruire la Modernità, mai compiuta. Il romanzo, il saggio, il poema torneranno a essere letteratura: ovvero, forma di conoscenza. Il romanzo, in particolare, aspetta solo di tornare a respirare a pieni polmoni: intanto, si possono cogliere i vocaboli della realtà da disporre secondo sintassi. Bisogna guardare ai padri e le loro opere: “I vocaboli della realtà di Goethe sono le più grandi immagini del mondo della sua epoca (…) Il compito del romanzo polistorico di tipo goethiano attende ancora di essere realizzato”, così scriveva Broch, di lingua tedesca: non poteva che tornare a Goethe. I vocaboli della realtà di Leopardi e Manzoni non sono da meno: possiamo tornare a quelli, non per scrivere un romanzo manzoniano o dei saggi leopardiani: per ritrovare il respiro, la polifonia. Broch dice che la Modernità ha la sua chance: “lo strumento che si è forgiata con il nuovo romanzo ha le dimensioni e le possibilità strumentali di un organo. Con la coralità delle sue voci razionali e irrazionali il nuovo romanzo è uno strumento sinfonico formidabile”. Un organo, e il suo respiro. Non è più tempo di pifferi – e lasciamo i pifferai ai loro camping.

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