L’equivoco della pura narrativitàLa critica letteraria riprenda il posto che le spetta

Gli scrittori-lettori devono alzare la voce e tornare a marcare il confine, eroso e poi divorato dalle lusinghe della post-modernità. Servono opere di storia della letteratura capaci di indicare le misure e le proporzioni di un ordine chiaro

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Diario del lettore #44

Ogni giorno che passa è sempre più evidente la necessità di una lingua italiana e così di una letteratura: una lingua italiana legata alla tradizione letteraria e capace di indicare la realtà e così di includerla e dirla; una lingua italiana che includendo linguaggio e realtà sia strumento di critica della realtà e del linguaggio medesimi. Letteratura è diventata sinonimo di impossibile, nel senso che intendeva Francesco De Sanctis: di ideale non realizzato nella storia e che è nelle cose, e così realtà. Bene, è per questo e solo per questo che si continua a operare per la letteratura. Senza una letteratura italiana non c’è una nazione italiana.

Non si tratta di salvare la letteratura, che è capace di badare a se stessa: non basta ibernarla nei laboratori universitari, dove i capolavori, oggetti vivi par excellence, subiscono da un lato la sorta di operazione di criogenetica che è la microfilologia, dall’altro le operazioni di microchirurgia di cui si diletta la variantistica. Tutto lecito e un minimo utile, per nulla decisivo: servono un De Sanctis e un Thibaudet italiano, vale a dire servono le opere: opere di storia della letteratura capaci di indicare le misure e le proporzioni di un ordine chiaro e ben costrutto.

Nell’attesa di un nuovo De Sanctis, è utile e necessario fare chiarezza: la critica letteraria deve riprendere il posto che le spetta: è arrivato il momento pergli scrittori-lettori di alzare la voce e fare fronte. Bisogna tornare a marcare il confine, eroso e poi divorato dalle lusinghe della post-modernità che non voglio neppure nominare. Non bisogna ripetere l’errore fatto dai nostri padri negli anni Sessanta e a seguire: credere di poter entrare nel sistema della comunicazione e modificarlo dall’interno. (L’abbiamo visto: è stata una scusa bella e buona per mettere le mani nel piatto e quasi mai con dignità – l’eleganza, quella, lasciamo perdere: ai succhiatori di pipa comunisti in abito blu sono succeduti i retori di trattenuta mimica in greige Armani). Bisogna stare discosti: rifiutarsi di partecipare ai dibattiti, in qualsiasi luogo reale o virtuale, e tornare a discorrere: ripartire dalla conversazione e da lì costruire altro. Alcuni di noi hanno trovato la disponibilità di un editore o di un direttore di giornale che intende la necessità di uno spazio per chi tiene alte le ragioni della letteratura: pure non basta e bisogna capirlo: è arrivato il momento di tornare a fare le riviste. E chi sa che un industriale illuminato – industriale, non imprenditore – non intenda la strepitosa risonanza che avrebbe istituire un premio che torni a essere letterario, vale a dire con una giuria fissa di otto più uno critici letterari, gli scrittori-lettori rappresentativi d’oggi. Eccolo, l’impossibile che vale la pena. 

La letteratura, quel che riesce a essere letteratura da una parte; il resto da un’altra, come è sempre stato. Dirlo e farlo, e senza tergiversare. C’è un momento preciso della storia recente in cui il legame con la tradizione letteraria si è interrotto: è successo a metà degli anni Ottanta: e sappiamo quali sono i motivi della frattura. La generazione dei padri, che ha i suoi campioni in Sciascia, Calvino e Garboli, non ha mai neppure preso in considerazione l’idea; la generazione dei fratelli maggiori che ha in Celati, Cordelli e Magris gli scrittori rappresentativi ha avvertito la frattura e non la sua estensione e la profondità, tranne in Alfonso Berardinelli e pour cause; la mia generazione, che ha i suoi alfieri in Michele Mari, Giorgio Ficara e Raffaele Manica l’ha presa di petto nei migliori e l’ha cavalcata nei sempre all’erta e calzati fantini della letteratura. (La “pura narratività” nasce per mano di due affabulatori di grandissimo talento: Pier Vittorio Tondelli e Alessandro Baricco: la variante riminese e la torinese della pandemia narrativa che nasce a metà degli anni Ottanta). Fino a questa generazione compresa il letterato operava in continuità con la tradizione letteraria, aveva ben chiara la differenza di sostanza tra lingua della comunicazione e lingua letteraria, il senso e vien da dire il destino critico del lavoro letterario, che sia di finzione narrativa o di riflessione saggistica; e infine godeva di una cultura storico-artistica, non vedendo soluzione di continuità tra letteratura e arti figurative. Tutto questo è saltato con la generazione successiva, di colpo. 

(È un capitolo a parte, quello delle arti figurative: vale un discorso tutto dedicato. Voglio qui solo evidenziare come dalla generazione di cui sopra in avanti la cultura figurativa e l’interesse critico è per i cartellonisti della Pop Art e i vetrinisti dell’Arte Povera: dove nella prima è l’invasione del linguaggio della comunicazione nell’arte, e l’opera è ridotta a cartellone stradale, e nella seconda si arriva al rifiuto dell’opera, vale a dire la traduzione dalla materia – colore, pietra o marmo, spazio racchiuso tra pareti e coperture – di un’immagine, che è mentale: non c’è più opera, soltanto gesto estetico, che com’è noto è a portata anche di un neonato o di un picchiatello. Solo un punto, oggi: la Modernità opera sulla materia: la chiede).

Per capire come questa frattura abbia avuto luogo bisogna fare un passo indietro: tornare alla metà degli anni Ottanta. È allora che, come aveva visto con chiarezza Alfonso Berardinelli, prende corpo quella Nuova Piccola Borghesia che è attore e pubblico del cambiamento. In verità, vista oggi e ormai adulta (?), è più preciso dirla Piccola Nuova Borghesia: si è estesa ancora di più e gode di una rappresentanza. Primo punto: quel che neppure Berardinelli poteva immaginare è che tutti costoro si sarebbero messi a scrivere narrativa: una narrativa secondo i dettami della suddetta “pura narratività”, di poca e più spesso nessuna rilevanza letteraria, ma con un pubblico già pronto e ben disposto: loro medesimi, i piccoli nuovi borghesi. È successo per la narrativa quello che era successo negli anni Settanta per la poesia: tanti scrivono e altrettanti leggono e gli uni per gli altri: era nato un mercato. Quel che cambiava era l’entità numerica: dalle sette-ottocento copie dei poeti-che-scrivono-e-si-leggono-tra-di-loro, si è passati alle sette-ottomila copie dei narratori-che-scrivono-e-si-leggono-tra-di-loro: numeri benvenuti per una editoria come la nostra, sempre in affanno. Dopo un primo passaggio nei cataloghi dei piccoli editori sono emigrati nelle collane di rappresentanza degli editori di cultura. Ora sia chiaro: tutti possono fare quel che meglio aggrada loro: vogliono scrivere romanzi, bene, che li scrivano; gli editori vogliono pubblicarli, che li pubblichino; c’è un punto, però. Tutta questa narrativa è stata detta letteratura e quasi mai lo è.

Come è potuto accadere? Ci sono tre ragioni e ben intrecciate tra loro: da un lato la ritirata della critica letteraria davanti all’invasione della “pura narratività”, dall’altro la chiara compiacenza degli editori nei confronti di un atto di omologazione al ribasso e infine, con la rincorsa dei giornali al pubblico-protagonista dei camping della comunicazione, l’entrata dei narratori-che-ecc. come recensori sulle pagine culturali dei giornali, soprattutto i supplementi letterari dei quotidiani nazionali. Ecco il clic che è chiusura del cerchio: e-si-recensiscono-tra-di-loro. 

Il primo punto è il più importante e quello che mi sta più a cuore: la debolezza della critica porta sempre perdita e mai acquisto – vale nella storia e per la politica, e vale per la letteratura. Ora, ritirata non è forse la parola giusta: pure se non quella, è stata qualcosa di molto vicino. I padri vengono meno (Calvino muore nel 1985, Sciascia nel 1989), oppure si ritirano dall’agone e si dedicano alle opere loro, come Garboli nel buon ritiro di Vado di Camaiore; i fratelli maggiori non si schierano con chiarezza: Celati prosegue lungo la sua strada e verso la foce, Cordelli si dedica al la critica teatrale, fatti salvi alcuni ritorni di fiamma che inducono voglia di incendio, Magris è pago dell’esercizio del suo magistero di saggista e non entra nella guardia di un avversario di cui sottovaluta il pericolo; rimane Berardinelli, che è stato, come succede spesso, il primo a vedere e non ha esitato a scriverne e a dare battaglia. Primo fra tutti, il memorabile L’esteta e il politico, che è del 1986. Bisogna dirlo: non fosse stato per l’impegno di Berardinelli, la critica letteraria come esercizio costante sarebbe sparita dai giornali. Certo, gli interventi di Claudio Magris e i saggi brevi di Salvatore Silvano Nigro, le occasionali accensioni di Franco Cordelli sono iniezioni di letteratura sulle pagine dei quotidiani: pure altra cosa è la critica come operare. In questo senso, a fianco di Berardinelli va posto Giorgio Ficara. Saggista di grande qualità, degno della nostra tradizione, Ficara con i saggi raccolti in Stile Novecento, pubblicato da Marsilio nel 2007, e soprattutto il pamphlet Lettere non italiane, da Bompiani nel 2016, ha fissato con chiarezza i termini della questione e la gravità. Tutto questo per dire che le forze ci sono: serve far fronte.

La compiacenza degli editori verso l’equivoco detto “pura narratività” ha ragioni evidenti, una fisiologica e una patologica. La fisiologica è che, come detto sopra, la “pura narratività” è soprattutto un mercato: compatto e riconosciuto, composto da attori sempre in scena nei siti (non sono luoghi) della comunicazione, giornalistica radiofonica e internettide (il refuso sarebbe facile), con numeri appetibili di tiratura; la ragione patologica è la scomparsa degli editori, sostituiti dagli amministratori delegati-editori, e così la ridotta capacità di resistenza della seconda linea di difesa: gli editor, i letterati che operano all’interno delle case editrici. (Bisogna aggiungere che sempre più elementi educati alla “pura narratività” entrano nelle redazioni: sic). Gli editor indeboliti hanno fatto passare, e sotto silenzio, l’equivoco e hanno accolto nelle collane letterarie i libri della “pura narratività”. Un esempio macroscopico e illuminante è quello della collana Supercoralli della Einaudi, un tempo il pantheon. Da un lato hanno perso Walter Siti, per le ragioni molto rivelatrici che lui stesso ha raccontato, e non sono riusciti a tenere in collana i libri di Daniele Del Giudice (hanno perso anche Giorgio Ficara, il cui Riviera è uno dei libri migliori degli ultimi quindici anni); dall’altro hanno accolto e pubblicano i vari e noti Diego De Silva, Nicola Lagioia, Valeria Parrella, Francesco Piccolo, Christian Raimo, Veronica Raimo. Supercoralli avrebbe potuto schierare gli scrittori italiani più rappresentativi: Daniele Del Giudice e Michele Mari, Giorgio Ficara e Walter Siti; invece si ritrova con il solo Mari e un battaglione di “pura narratività” – e stiamo parlando di Einaudi. È una scelta di politica editoriale e ben precisa, marcata.

Dovrei dire ora della terza ragione, l’invasione dei supplementi letterari dei quotidiani nazionali da parte dei campioni della “pura narratività”: pure non riesco: troppo è il disgusto per lo spettacolo della catena di sant’antonio della recensione. Non che prima non succedesse: quel che è nuovo è l’estensione del fenomeno: i   nipoti dei succhiatori di pipa comunisti e i figli dei retori in greige Armani hanno osservato con attenzione, imparato l’arte e trasformato il tutto in vero business plan come dicono tra di loro nella post-lingua. È un meccanismo infernale e avvilente.   Dove il fatto notevole e che va esposto è uno: nel recensire il libro del compagno di banco ne dicono come se fosse davvero letteratura, e fin qui passi; ma il fatto è che lo credono sul serio, così come credono che le vite degli innumerevoli alter ego dei loro romanzi siano davvero notevoli e valgano le varie “O” di meraviglia con cui le raccontano. È questo, il fatto grave: sono in buona fede: ed è molto, molto peggio. Ora, essendo la “pura narratività” assai contagiosa, questo diventa un problema: di contagio in contagio si è arrivati a pensare che quella sia la letteratura e nuova. Colpa del silenzio della critica e del capo chino degli editor, non c’è dubbio: pure fa impressione: ci sono ormai più narranti che lettori (non, leggenti) e tanta euforia.  (L’esibizione di euforia copre l’inerzia di una lingua di legno o truciolata: illeggibile). Non uno di questi euforici di sé e entusiasti che intenda un fatto di chiara evidenza: come la letteratura sia per loro luogo lontano e incognito.

La letteratura è arte della parola disposta con ordine e precisione, fino all’esattezza: è compimento in una forma che include la realtà (le cose) e le dona visibilità: e noi, italiani, godiamo di una tradizione moderna suprema: Leopardi-Manzoni-De Sanctis A loro, i maestri che hanno dato una lingua italiana e moderna, dobbiamo tornare, per continuare a sperare l’impossibile: la realizzazione della Modernità, incompiuta. Ha scritto Raffaele La Capria, l’ultimo dei padri e così amato: “Ogni volta che riesco a comporre una frase ben concepita, ben calibrata e precisa in ogni sua parte, una frase salda e tranquilla nella bella lingua che abito, e che è la mia patria, mi sembra di rifare l’unità d’Italia”. Eccola, la letteratura e in bellezza.

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