Un piccolo libro di Milan Kundera, Un Occidente prigioniero, offre tre argomenti di riflessione quanto mai attuali – e che si legano al tema dei saggi raccolti dall’autore in L’arte del romanzo, sempre pubblicato da Adelphi. Eccoli: che fare di una lingua e tradizione letteraria minoritaria e residuale, quale destino attende i paesi legati da quella comune tradizione che è la Modernità e si dice (ma non si compie quale) Europa, il senso e il futuro del romanzo come forma della Modernità.
Milan Kundera è ben di più che l’autore di L’insostenibile leggerezza dell’essere, del 1985, libro notevole a cui non ha giovato il diventare un cartellone pop dell’epoca. (Sono gli anni della frattura con la tradizione letteraria e della nascita e il dilagare della “pura narratività”: il romanzo di Kundera entra nel gorgo della comunicazione e si trasforma in una tiritera postmoderna). In realtà, Kundera era stato negli anni Sessanta uno dei letterati di punta della rinascita ceca, fino alla Primavera di Praga. Aveva già pubblicato quello che è uno dei suoi due romanzi migliori, Lo scherzo, e la raccolta di racconti Amori ridicoli e una pièce teatrale. Lo scherzo diventerà per i cechi il romanzo della Primavera del 1968 e chiude idealmente il primo periodo dello scrittore nato a Brno. (Kundera emigrerà a Parigi, dove tuttora vive, nel 1975). Le fondamenta del suo essere letterato e europeo erano state poste.
Il Discorso al Congresso degli scrittori cecoslovacchi del 1967, uno dei due testi di Un Occidente prigioniero, è parte di un momento drammatico, sul fronte politico, e molto fertile dal punto di vista letterario. Kundera ricorda come i protagonisti della rifioritura ceca dell’Ottocento avevano – “con un atto deliberato” – puntato sulla eccellenza del lavoro culturale (letteratura, filosofia, scienza, arte figurativa: tutte) per sostenere la lingua ceca. Il senso era chiaro: il sostegno a una lingua minore dell’arcipelago Europa, di cui la allora Cecoslovacchia si sentiva parte, trova una riuscita se le opere diventano parte rilevante per qualità del mondo europeo. Non è soltanto questione di riuscita e di prestigio: è questione di sopravvivenza: della lingua, la cultura e così la nazione. “I leader della rifioritura ceca hanno legato la sopravvivenza della nazione ai valori culturali che quest’ultima avrebbe dovuto produrre (…) Aspiravano a far parte del mondo e dell’Europa”, scrive Kundera. Ecco il primo punto: per sopravvivere in un arcipelago di nazioni servono una lingua forte per qualità di letteratura: l’Italia ha avuto tutto questo e in regolata mescolanza di narrativa, poesia e saggistica fino a metà degli anni Ottanta: poi la saggistica è rimasta sola, a rappresentare la lingua italiana e la sua letteratura. Se si incontra un letterato francese dirà con ammirazione di Calasso, Garboli e Magris: qualcuno aggiungerà Agamben o Manganelli, a seconda del côté politico e sociale; un letterato tedesco solo di Calasso e Magris, più Agamben e qualche germanista. Quanto alla narrativa: solo i nostri padri: Sciascia e Calvino, i più avvertiti Parise e La Capria – e quest’ultimo è un eccellente saggista narrativo, prima che narratore. Vale ribadirlo: a salvare la lingua italiana e tenere alto il valore della nostra letteratura sono stati i saggisti: e continuano a farlo, ancora oggi.
Non è argomento di cui dire oggi, pure il rimando è necessario: la nostra letteratura moderna è ricca di valore, e riconosciuto nell’arcipelago Europa, nella poesia lirica e nella saggistica: non certo nell’ambito della narrazione, e tanto più del romanzo. (C’è poi il caso di Pirandello per la poesia drammatica, il teatro; ma questo è altro). Vale ricordare i tormenti e i feroci dubbi del letterato Manzoni di fronte al romanzo: ed è il nostro massimo romanziere. Ai Promessi sposi possiamo aggiungere il poco o punto letto Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo (c’è il più bel personaggio femminile della nostra letteratura: la Pisana) e il gran romanzo di Giovanni Verga, Mastro don Gesualdo: siamo ben lontani dalla ricchezza della letteratura francese, pure riusciamo a ben figurare. Il distacco si acuisce nel Novecento: dopo l’attutito colpo di gong della Coscienza di Zeno di Svevo, un romanzo di esemplare ritardo, i gioielli siciliani e gemelli diversi che sono Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e l’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, e resi gli onori a Gadda per il geniale garbuglio della Cognizione del dolore: ecco, tolti questi non rimane molto di valore europeo e indiscutibile. Non abbiamo avuto una Recherche o un nostro Uomo senza qualità, e neppure un Viaggio al termine della notte, oppure un trittico come I sonnambuli di Hermann Broch: i romanzi europei del confine tra prima e seconda Modernità (il momento cruciale della storia europea) sono francesi e tedeschi: non ci siamo e non potevamo esserci. È stato ed è un punto di grande debolezza.
Tutto questo per dire che la letteratura italiana è da sempre carente di eccellenza in una delle forme decisive della Modernità: il romanzo. Solo l’alta tradizione della poesia e della saggistica hanno permesso la resistenza della lingua italiana, vicina e in posizione inferiore alla francese e alla tedesca. (Si aggiunga che una delle aree di superiorità dell’italiano, in termini di necessità di conoscenza, si è dissolta: intendo la storia dell’arte, luogo per secoli di superiorità della nostra letteratura). È chiaro come non sia una situazione che possa durare per sempre.
L’altro testo del libro di Kundera, Un Occidente prigioniero o la tragedia dell’Europa Centrale, del 1983, è portato di un fatto inoppugnabile: l’appartenenza dei paesi della Europa centrale (Polonia, la allora Cecoslovacchia oggi Boemia e Slovacchia, l’Ungheria) alla grande corrente spirituale che sfocia nella parola d’ordine Europa, e che ha trovato la sua definizione nella Modernità. A quel tempo non era così chiaro: in quella che era l’Europa, quei paesi erano visti come parti dell’impero sovietico; e ancora oggi, per ragioni di ignoranza storica mai emendata, non viene intesa l’appartenenza delle regioni centrali alla nazione europea e la loro peculiarità. (Se si aggiunge l’estirpazione della cultura ebraica di quelle regioni e il grande apporto di quella alla cultura della Modernità, si ha il quadro dell’entità della nostra perdita). Non così era per le popolazioni di quei paesi: “Per loro la parola «Europa» non è un fenomeno geografico, ma una nozione spirituale, sinonimo di «Occidente»”, scrive Kundera. Sono stati i costruttori di modernità ungheresi e cecoslovacchi ad avviare i discorsi e le riflessioni che culmineranno nelle rivolte del 1956 in Ungheria e del 1968 a Praga. (Sono questi paesi, le sue élite e le popolazioni a essere da sempre avvertite del pericolo dell’impero russo: zarista prima, sovietico poi, populista oggi). Non è il caso di fare l’elenco di artisti, letterati e scienziati centro-europei di capitale importanza per la Modernità: è bene ricordarlo e recriminare sulla loro diaspora oltre Atlantico: pure sarebbe bene evitare che succeda di nuovo.
Kundera, dopo aver stabilito in modo perentorio il confine che divide l’Europa Centrale dalla Russia, nelle sue varie e susseguenti incarnazioni imperiali, passa a dire della identità dei paesi che costituiscono quella che dice una piccola nazione: “Che cos’è l’Europa centrale? L’incerta zona di piccole nazioni strette fra Germania e Russia. Insisto su questi termini: piccola nazione” – e qui il discorso si fa molto interessante. Continua: “L’Europa centrale in quanto nucleo di piccole nazioni ha una specifica visione del mondo, basata sulla diffidenza nei confronti della Storia. Dea di Hegel e di Marx, incarnazione della ragione che ci giudica e decide per noi, la Storia è quella dei vincitori (…) Risiede in questa disillusa esperienza storica la scaturigine della loro originalità culturale, della loro saggezza, di quello «spirito di non serietà» che si fa beffe della grandezza e della gloria”. Ora: cosa rammenta quel nucleo di piccole nazioni riunite (da poco) in uno stato unitario, se non l’Italia? Cosa rappresenta meglio l’Italia se non la diffidenza nei confronti della Storia e così dello Stato? Per concludere: cosa è se non la manzoniana coppia storia/invenzione il nucleo della forma della Modernità detta romanzo? Il mai risolto dilemma manzoniano, se non nel suo gran romanzo, è spia della diffidenza nei confronti della Storia e il disdegno di quella. Ecco il peccato capitale del romanziere italiano. Ma non corriamo: del romanzo dico più avanti e come si deve.
Kundera passa a dire di quel che vede in formazione: “Nel mondo moderno, dove il potere tende a concentrarsi sempre di più nelle mani di pochi grandi, tutte le nazioni europee rischiano infatti di diventare ben presto piccole nazioni e di subirne la sorte”. Aveva visto giusto: e l’Italia è scivolata, dapprima lentamente poi a capofitto, nel novero delle piccole nazioni: e in Europa nessuno ci ha fatto caso. Esattamente come è successo con la subitanea scomparsa del “crogiolo letterario centroeuropeo”, per dirla con lo scrittore moravo. Kundera ha ben chiaro che il motivo è lo spegnersi del motore silenzioso della civiltà europea: la Modernità e la sua cultura liberale e democratica, di cui ricorda “la civiltà del totalitarismo russo” è la radicale negazione. “L’invasione russa ha ricacciato la Cecoslovacchia nell’epoca «postculturale»”, scrive Kundera: proviamo a sostituire “invasione russa” con “invasione dell’inconsistenza” e “epoca postculturale” con “epoca postmoderna” e avremo chiaro qual è il pericolo, meno cruento ma altrettanto effettivo, che sta correndo l’Europa: e siamo già in ritardo nella risposta, siamo già piccola nazione. L’Europa per sopravvivere e rifiorire deve tornare alla sua tradizione: la Modernità. Tutte le parole sono lì: aspettano solo di tornare a incendiarsi.
Discorso di Gerusalemme: il romanzo e l’Europa, è il discorso di ringraziamento che Kundera pronunciò alla cerimonia per il Premio Gerusalemme, nel 1985. (Guardare alle date: indicano. Sono sempre gli stessi anni: gli anni della frattura). Bene: questo discorso andrebbe letto alle scuole medie, a impedire la nascita di un’altra generazione di “pura narratività”. Dopo un omaggio alla cultura ebraica e a Israele, Kundera ringrazia per il premio e spicca una precisazione che vale il genio: “Lo ricevo come romanziere. Romanziere, sottolineo, e non scrittore. Il romanziere, dice Flaubert, è colui che vuole scomparire dietro la propria opera. Scomparire dietro la propria opera significa rinunciare al ruolo di uomo pubblico. Non è così facile oggi, quando tutto ciò che ha anche solo un briciolo di importanza deve passare per la scena insopportabilmente illuminata dei mass media, i quali, contrariamente al proposito di Flaubert, fanno scomparire l’opera dietro l’immagine del suo autore [il corsivo è mio]” – ed era il 1985, non esistevano ancora internet e tutti i camping della comunicazione, dove i campeggiatori-scriventi si effondono in “O” di meraviglia ciascuno per l’operina dell’altro, con cinguettii e scodinzolamenti. Rinunciare al ruolo di uomo pubblico: ecco un punto da cui ripartire; scrivere: punto. Kundera prosegue e dice di una “saggezza del romanzo”, riporta un bellissimo proverbio ebraico (“L’uomo pensa, Dio ride”) e sale sulle spalle al gigante Rabelais. Poi un’altra frase spiccata ad arte: “L’arte ispirata dalla risata di Dio non dipende, per sua essenza, dalle certezze ideologiche, ma anzi le contraddice”: il romanzo è critica in forma di narrazione, ride (o sorride) delle certezze. Un passaggio a casa di Laurence Sterne, l’autore del Tristram Shandy, e poi si torna a lui, Gustave Flaubert e al libro oggi più necessario, indispensabile alla sopravvivenza della Modernità: Bouvard e Pécuchet. Flaubert ha scoperto un componente del gene dell’umanità: “Flaubert ha scoperto la bêtise. Oso dire che è questa la massima scoperta di un secolo così fiero della sua ragione scientifica (…) Ora la bêtise è una dimensione inseparabile della esistenza umana (…) la bêtise non cede davanti alla scienza, alla tecnica, al progresso, alla modernità, anzi, con il progresso, progredisce anch’essa!”. Per deduzione: la Modernità non solo era non monda della bêtise ma la aumentava, come una bolla di chewing gum; e la bolla ha un nome: Postmodern. Kundera continua e senza nominarla la dice e bene: “la bêtise moderna non significa ignoranza, bensì il non-pensiero dei luoghi comuni”: come dire meglio il reame della comunicazione, la “pura narratività”, che ne è un prodotto, e i camping. Kundera continua preconizzando “l’ascesa irresistibile dei luoghi comuni” attraverso i computer e i mass media e poi torna a Hermann Broch, che diceva dello “sforzo eroico” del romanzo moderno che si opponeva alla marea montante del Kitsch: ovvero il Postmodern, ovvero la “pura narratività”, ovvero i Cartellonisti e i Vetrinisti.
Il romanzo è e rimane una forma della Modernità: non può dimorare nei tinelli e sui poggioli del non-pensiero dei luoghi comuni: vive di realtà, quella realtà non ancora scoperta e impossibile che la Storia non porta in luce; il romanzo è critica e in atto. Niente a che vedere con i replicanti della “pura narratività” che scrivono nella bolla. Il romanzo è inseparabile dalla Modernità; non trova dimora nella inconsistenza. Eppure è una bolla, soltanto una bolla: prima o poi scoppierà.
Essere europei e moderni oggi è lavorare a mantenere attiva e vivente la tradizione della Modernità: con parole, opere e omissioni: stare discosti, ignorare i camping, salutare ogni incendio. Il patrimonio della Modernità è immenso e infiammabile: il romanzo è una forma capitale della Modernità stessa: verrà uno scrittore, eccome. C’è un lavoro che i letterati, in ogni sede, sono chiamati a svolgere: il lavoro critico, senza concessioni e con passione: è questo che è venuto a mancare, e da tanto tempo ormai. È possibile che noi non si faccia in tempo a salutare lo scoppiare della bolla e il dissolversi dell’inconsistenza di cui si alimenta e che diffonde. Non ha importanza: arriveranno nuove generazioni e devono trovare quel che vale. Bisogna essere assolutamente moderni – costi quel che costi.