TagebücherIl taccuino di Peter Handke è forma dell’attenzione

La casa editrice Settecolori ha pubblicato un libro dello scrittore austriaco dal titolo “Di notte, davanti alla parete con l’ombra degli alberi”. Egli non è un costruttore, ma un rabdomante che ci invita a tornare alle sorgenti: i padri della Tradizione. La sua poetica è un epos degli immediati dintorni

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Peter Handke è uno degli scrittori europei rappresentativi e senza dubbio alcuno: uno dei fratelli maggiori e il più rispettato – e fratello in spirito a Gianni Celati, come Handke grande camminatore e vagante (niente a che vedere con il flâneur). Viene da loro e dall’americano Sam Shepard, ultimo erede della letteratura on the road, un sentimento dell’inquietudine e la ricerca di autenticità che era generazionale. Un formidabile terzetto di vaganti: due europei, e così camminatori; uno americano, e così itinerante nel West, vero cantore della frustrazione americana.

(L’altro fratello maggiore italiano era Franco Cordelli – e con lui Alfonso Berardinelli, lo scrittore-lettore della sua generazione, a cui guardare con rispetto per l’operare. Cordelli, nei primi anni Ottanta, avrebbe diretto una memorabile collana editoriale, per la Guanda di Carlo Corsi: lì avrebbe, tra altri, pubblicato due libri di prose brevi di Peter Handke: Il peso del mondo e Storie del dormiveglia, rispettivamente n. 5 e n. 20 della collana. Ho lasciato come ultima notizia il titolo di collana e a ragione: Prosa contemporanea. Sì, avete letto bene: prosa – e tanti saluti).

Ora la casa editrice Settecolori, bella casa di nascita recente e qualità superiore, pubblica un libro di Peter Handke che è un vero gioiello: uno dei suoi Tagebücher: parola che andrebbe tradotta come “diari”: pure in questo caso, è meglio taccuino. Il motivo è presto detto ed è meraviglia: il libro dispone nel testo anche i disegni di Handke e riprodotti a colori. Il titolo è già una figura: Di notte, davanti alla parete con l’ombra degli alberi; e il sottotitolo una nota: Segni e presagi dalla periferia 2007-2015. La periferia del mondo, dunque: lì dove il mondo perde peso e l’uomo ritrova la presa sulla vita, discosto dal rumore e solo, padrone del giorno e la notte. “Scrivano, resta inosservato, sparisci tra il giallo dei denti di leone lungo il marciapiede. Cammina su una strada laterale, e poi su un’altra, e su un’altra ancora: «È questo! Lascia che i tuoi cari vivano la loro vita, e tu sparisci!»”: è una esortazione a se stesso, e con tanto di esclamativo al punto. (La festiva baldanza dell’esclamativo è un compimento dell’ultimo Handke: una sorta di benedizione, come è nello splendido La ladra di frutta). Allora è la gioia e la mano può tracciare segni, delineare figure: alle forme di parole si affiancano le forme di colore o di linea e la festa è completa. Chi ha avuto in sorte il dono del disegno sa cosa sto dicendo. Diversi sono allora anche i rumori: non più quelli dell’inconsistenza, dei trabiccoli della comunicazione: “Camminare tagliando per i campi: i rumori del mondo. Ciascuno di essi è così diverso, ora il grido del fagiano, ora il gloglottare del tacchino… diventano uno (1), un solo rumore, il suono del mondo”. Il cielo e la luce, il suono del mondo – e l’ombra, così fraterna agli alberi e all’uomo: subito nel titolo. Magie dell’ombra, titola la sua postfazione Alessandra Iadicicco, da qualche anno congeniale e affine traduttore delle opere di Handke: coglie il segno. Sono le forme dell’ombra solo all’apparenza più feriali: vi è in esse in realtà la regale semplicità e l’aura di un regno dell’intimità. Ora, di cosa è portato l’intimità? L’ascolto e la sua sposa, l’attenzione. Il taccuino di Handke è forma dell’attenzione.

Un grande scrittore si vede al passo d’ingresso: l’incipit e la prima nota di Handke dicono tutto, a chi importa ascoltare. L’incipit viene da una lettera di Goethe al duca Carl August, del 19 febbraio 1814, e lo vorrei scolpito sulla pietra posta sull’uscio di una casa al bosco: “Altri avranno dato notizia di cose importanti; io invece nella mia cerchia ristretta, cerco di tenere in vita quel che viene dalla tradizione”. Non serve aggiungere altro se non che oggi più che mai è compito primo del letterato europeo e ineludibile. La prima annotazione, del libro e dell’anno 2007: “Il senza padre si sente sempre al centro dell’attenzione, nel bene e nel male”. Qui ci si deve fermare.  Non entrerò nei dettagli della vita di Handke: basti dire che la figura del padre è centrale e per assenza: e basta ascoltare la frase citata per intendere l’importanza. La tradizione come famiglia spirituale e la coppia padri/figli come motore figurativo – e sono detti padri, i maestri della tradizione. Cosa conta più di un padre? Niente. (Non è qui luogo per dire della presenza/assenza della figura del padre in Handke: pure bisogna tenerla a mente – e senza ricamare le formulette della psicologia). Bisogna dire dei padri, i maestri della tradizione. Sono vera presenza e consueta dei diari e taccuini di H.: Goethe, sempre Goethe, compreso il G. scienziato della Teoria dei colori; Jakob Böhme, il filosofo e mistico tedesco del Seicento; Ibn ‘Arabī, il filosofo, mistico e poeta arabo nato in Spagna, a Murcia, e viaggiatore tra la fine del decimo secolo e i primi decenni del Duecento; ma anche i semplici del villaggio di Stara Vas, il villaggio materno in Slovenia. La saggezza dei sapienti, e naturaliter. “Lo so da molto presto: il linguaggio poetico è quello naturale, l’unico veritiero – ma solo se in una persona vi è un sentimento vero esso produce un effetto. Chi è però che ha ancora in sé un sentimento simile?”, scrive Handke: per questo si attende al proprio compito, e discosti: e si cammina, vaganti delle strade secondarie e i campi. Solo rifiutandosi al rumore della comunicazione, la vera pandemia, si può compiere il passo verso la seconda naturalezza: l’unica possibile, per noi figli della Modernità.   Peter Handke ha compiuto il passo e il taccuino dice il compimento.

(Una nota sola e en passant sul padre e il suo essere centrale: Handke riporta nel taccuino una citazione dal Père Goriot di Balzac: “Un dolore vero, il dolore del figlio trascurato che ama suo padre”: lo fa senza un commento. Non ho avuto quella sovrana sfortuna ma conosco il dolore del maschio dagli occhi di un amico: è come dice Balzac. Padri e figli: è tutto, sempre: il resto è conseguenza”).

Un epos degli immediati dintorni: così si può definire la poetica dei diari e taccuini di Handke: e sempre in movimento, l’occhio a cogliere la forma, la mano a fissarla in sposalizio di lettere e figure. L’esortazione è chiara e così metaforica: “I segreti degli immediati dintorni. Setacciare le vicinanze”. Lo scrivano cerca l’aggettivo per gli slanci dei merli al di sopra dei cespugli (“delfineschi”), il verbo per la neve dal finestrino del treno (“rompe i confini”), dice le gazze “ginnaste sulle cime degli alberi”, fa risuonare il verbo preferito del contemplatore: “stormire”; tutto è disposto per la lettura che non è se non trasformazione (“Scrivere: trasformare sognando”). Il vagante è filosofo della natura, solidale all’uomo, discosto e aperto all’inaspettato. Trova in sogno la parola che aspettava per sé: “Solitudine? «Non-essere-attorniati» (una parola venuta dai sogni)”; si iscrive all’albo dei seguaci dell’ideale, come fosse un poeta-filosofo della Romantik (“Sorpresa generale: l’ideale”) e ne cerca le figure in una realtà per cui trova d’emblée il verbo: si “erge imponente” e non aggirabile, se non danzandole attorno. Pure non dimentica qual è il suo operare e lo illumina di un’esortazione che è subito fraterna: “Scrivano, sii senza riserve. Nessuna tecnica, eccetto quella di evitare”. Qui è di nuovo il caso di fermarsi, su quel deciso evitare. Pratica sempre ostica, quella dell’evitare: veniamo da quarant’anni di partecipare: ogni giorno, fin da quando usciamo di casa, siamo costretti a dire una serie di “no”: il Postmodern, il non-pensiero dei luoghi comuni che è portato della comunicazione ci assilla e ci obbliga alla negazione. La vera e unica risposta è il verbo di Handke: evitare – e in toto. Il primo gesto del letterato, lo scrittore-lettore, sarà evitare: tutto. Niente scuse: dalla bolla della comunicazione si sta fuori e basta.

Sarebbe sbagliato pensare ad Handke come a un uomo votato alla vita estatica: non è così, e chi sa la sua opera ne ha la certezza. Stare discosti non vuol dire rinunciare a intendere la realtà, il dilagare della bêtise: “Bouvard e Pécuchet si sono moltiplicati e si moltiplicano quotidianamente. Oggi sono dappertutto, guarda!, guarda qui, e là, e là”, scrive H. – e si potrebbe aggiungere: leggi!, leggi qui, e lì, e lì, aprendo a caso uno dei post-libri della “pura narratività”, che si moltiplicano, con per autori innumerevoli alter ego dei due personaggi di Flaubert. Handke non lascia passare nulla, al contrario: “Allievi librai? Ma se non sai neanche come si tiene in mano un libro. Guarda come lo tieni!”. Soltanto, ha capito che era tempo di lasciare: “Dire «lascia!», il lasciare come un modo per riordinare, per creare ordine; colui che lascia in quanto creatore”. E poco più avanti dice come anche avere il sentore di quel che si deve “(tra)lasciare” è una ispirazione. “(l’ispirazione del «Quello no!»)”. Stare discosti è un difendersi dai tanti, troppi “quello no!” che impediscono la vista. Tutto poi per potersi dedicare alla vera passione dello scrittore e così di Handke: “Cercare con gioiosa passione. E cecare con devozione! E cercare con energia (con l’energia di trovare): l’ideale (il «cercatore gentiluomo»)”. Ma a cercare cosa? Luoghi, innanzitutto; le sorgenti, inviolabili. Come Cézanne, il pittore assoluto a cui Handke torna spesso: e noi pure, che sappiamo lì la Modernità.

Peter Handke non è un costruttore, è un rabdomante: sa le sorgenti e ci invita a tornare a quelle: i padri della Tradizione, che sappiamo nostri. Così come l’altro fratello maggiore e gemello europeo di lingua tedesca, W.G. Sebald, scomparso troppo presto e al gonfiarsi della bolla: lui è un geologo, il geologo della memoria europea. Sono loro i gemelli e fratelli maggiori: Handke ci ha  riportato alle sorgenti, Sebald ci ha indicato i luoghi e la memoria di quelli, per farci intendere come e dove costruire. Ora sta a noi – non perdiamo altro tempo: abbiamo tutto quel che serve. Dobbiamo rispondere, e con entusiasmo, alla dedica che Peter Handke ha apposto in epigrafe al diario Il peso del mondo: “A colui al quale importa”.