Francesco Targhetta è un Pagliarani con la sordina: non lo è in senso epigonale, né nel senso di una ingenerosa diminutio, ma perché ci è difficile immaginare i suoi versi declamati nelle tonalità tonitruanti del “novissimo” predecessore. I versi di Targhetta sono di una mestizia trattenuta al di qua del pathos e comunque irrimediabile: vanno perciò letti nella testa, anche se spesso sono ritmati (o addirittura rimati) e cantabili, e la sua lirica è classicamente apparecchiata (con assonanze, rime, omoteleuti e altre figure consuete di parallelismo).
Ma proprio come Pagliarani nel suo poemetto più celebre, La ragazza Carla (’62), sin dai suoi esordi Targhetta si incarica di ricostruire un’antiepica della working class, non più alle prese con l’alienazione cittadina ma ricollocata nella stessa provincia da cui nella stragrande maggioranza dei casi provengono quei suoi lavoratori in transito su pullman o treni regionali. Lavoratori che qualche anno fa chiamavamo precari e ora flex o smart, proprio come i pullman e i treni che li spostano (e il pensiero va ovviamente all’identità reificante con le merci).
I personaggi di Targhetta sono tutti a ridottissimo tenore di vitalità, vanno nel mondo a testa bassa, inosservati e, soprattutto, sperano che nessuno si sieda accanto a loro o, peggio, di fronte, cioè che nessuno, di base, li obblighi a parlare. Come il Tiziano di una sezione della nuova raccolta, La colpa al capitalismo (appena data alle stampe per La Nave di Teseo), neo-single che trasforma il suo balcone in un giardino di «tropici tristi», cui gli pare che i vicini rispondano con bandiere, insegne, gagliardetti, ossia figure di trionfo e di vittoria, mentre lui perde per incistamento congenito l’occasione di avvicinare la donna che gli piace (genericamente nominata “quarantenne” – più avanti avremo anche uno “Zero”, nome proprio di un disagiato che non ha mai portato a termine nulla: fino al suicidio).
Targhetta sta nel mondo di oggi, esattamente come chiedeva Pagliarani («Siamo circondati da antenne e ventilatori» – pare abbia detto, secondo la testimonianza di Valerio Magrelli, che, giovanissimo, ne seguiva i seminari di poesia – «e allora perché continuiamo a parlare di tramonti e di gabbiani?»).
Conosce i social, l’autore Targhetta (anche se la persona empirica usa solo Twitter, e assai parcamente), le dinamiche di amplificazione del desiderio che passa attraverso i dispositivi immediati di consenso o di following, conosce il riadattamento dell’amor de lonh alle app di dating che lo riconvertono in abbandono insensato e umiliante (ed è a un “vecchio Nokia” scarsamente performante che si consegna l’epitome dell’isolamento fobantropo, avrebbe detto Guido Morselli).
Leggere Targhetta vuol dire soprattutto leggere poesie dal titolo I giorni in cui non parli con nessuno, oppure Sparire, e uno potrebbe pensare e mamma mia la tristezza, non c’è proprio scampo a questo mood suicidario (reso tra l’altro senza alcuna marca di ironia o distanziamento, tipica di autori di altra area). Ma Targhetta non intristisce, in verità, perché queste vite potenziali (come da titolo del suo ultimo romanzo, del 2018) sono vite immaginate con partecipazione emotiva e tensione sociale, se si può usare questo termine in senso non smaccatamente ideologico, bensì leopardiano (la “social catena” della Ginestra), vite riscattate dalla cura della forma, dalla capacità di restituirle nei gesti piccoli, nelle microtragedie delle esistenze singolari, allegoriche in modo spontaneo, senza artificio: «A dieci anni ebbe in regalo un criceto/ ma nella gabbia mancava la ruota».
L’aspetto più interessante della poesia di questo autore è una ibridazione dei generi non coatta, che non è vezzo manierista né pretesa onnipotente di abbattere confini e steccati, ma un’osmosi naturale, un passaggio di consegne fluido, di volta in volta verificato nel contesto della pagina, nell’idea di mondo che veicola.
Così il suo primo romanzo, Perciò veniamo bene nelle fotografie (2021), era in versi, e i versi di oggi si riempiono di personaggi e scene: non che ne manchino, solitamente, in poesia, ma Targhetta dà l’impressione di saper reinterpretare e riadattare perfettamente al contemporaneo quella che Michail Bachtin chiamava la romanzizzazione dei generi.
Il romanzo, da quando è diventato come lo conosciamo, espressione seria della vita di persone non necessariamente eccezionali, e anzi più spesso banali e quotidiane, ha al contempo esteso la propria istanza narrativa agli altri generi letterari.
Ancora una volta nella nostra tradizione è Pagliarani, il prototipo, con i suoi poemetti narrativi (non solo quello già citato, ma soprattutto La ballata di Rudi, del ’95). Anche gli “inosservati” di Targhetta sono emblematici di un mondo arreso, soffocato dal peso di vivere al di sotto di qualunque aspirazione o voluttà di cambiamento, in cui si salva, però, il desiderio, lo sguardo sull’altro come ipotesi di sopravvivenza, mentre quel grigiore alla fine diventa un’atmosfera familiare e rassicurante, ed è per questo che non ci si incarica davvero di mutarlo.
Le cose restano così, a patto di poterle dire, e di cogliere, in quegli appartamenti seriali, in quelle vite anonime (ma che invece s’incarnano tutte in precisi individui nominati, finanche il famigerato “Zero”), in quei gesti improvvisamente e per caso sottratti all’insignificanza, dei momenti di vera e profonda solitudine, quella più necessaria: a sentirsi parte della specie, del mondo, anche (soprattutto) nell’era dell’iperconnessione e del “reo” capitale.