Pesa come un anatematismo il niet che le realtà organizzatrici del Rivolta Pride di Bologna hanno solennemente formulato contro la partecipazione di Polis Aperta, associazione di agenti Lgbt+ delle forze dell’ordine e delle forze armate, all’odierna marcia dell’orgoglio. Non sarà dunque ammesso alcun logo o striscione che possa ricondurre al sodalizio nato nel 2005 e facente parte di EGPA (European Gay Police Network). Chi ne è componente potrà invece intervenire ma «in modo anonimo – così il comunicato di protesta – quasi dovessimo nascondere chi siamo».
Alle prime reazioni di Polis Aperta, subito attaccata sui social da rappresentanti o persone comunque vicine al Rivolta Pride con «parole pesanti come pietre» e toni trasudanti «dileggio, discriminazione, pregiudizio», è seguita una polemica che s’è vieppiù ingigantita con esiti inattesi.
Di qualsivoglia età, condizione, appartenenza (o non) politica, la maggior parte delle persone Lgbt+ s’è infatti schierata apertamente accanto alle loro omologhe in divisa e stigmatizzato i veti escludenti posti dalla rete bolognese. Rete che, nata nel 2020 attraverso le mobilitazioni #moltopiudizan, è dovuta correre ai ripari martedì con un lungo post su Facebook per «chiarire che la nostra non è una presa di posizione contro Polis Aperta, ma di critica aperta alle forze dell’ordine come istituzione, e come luogo di riproduzione di violenza sessista, omolesbobitransfobica, abilista e razzista. Riteniamo necessario aprire una riflessione seria sul tema della polizia e delle forze armate e delle discriminazioni vissute dalla nostra comunità».
Insomma, la classica toppa peggiore del buco tanto più che da 17 anni l’invocata «riflessione seria» la compiono, e con risultati ben visibili, agenti Lgbt+ delle forze armate e delle forze dell’ordine. «Persone – si legge sempre nel comunicato di Polis Aperta – che, pur avendo scelto un lavoro, dove non sempre la comunità Lgbtqi+ è stata accolta a braccia aperte, hanno deciso di metterci la faccia. Di uscire allo scoperto, sfidando ogni convenzione per abbattere diffidenza e pregiudizi. Fin dalla nascita, l’associazione si è impegnata per il riconoscimento dei diritti civili, dalla legge Cirinnà al ddl Zan, per il riconoscimento degli alias alle persone in transizione e dell’omogenitorialità. Perché siamo consapevoli che solo tutelando le molteplici identità individuali della società si garantisce la difesa di quella democrazia che abbiamo deciso di rappresentare indossando una divisa».
A questo punto è necessario però riavvolgere il nastro e ritornare indietro alla New York di 53 anni fa che tutte e tutti, anche il Rivolta Pride l’ha fatto, finiscono sempre per citare. Di strada ne è stata fatta, e non poca, dalla notte del 28 giugno 1969, quando nel bar Stonewall Inn di Christopher Street lesbiche, gay e soprattutto donne trans, che, come Marsha P. Johnson, amavano definirsi drag queen, reagirono contro l’ennesima retata della polizia. Arresti, violenze, soprusi agiti dalle forze dell’ordine verso persone considerate deviate, verso persone dallo status illegale e dunque da perseguire. Fu l’inizio di quei moti di Stonewall che, durati fino al 3 luglio, sono riguardati quali l’iniziale momento simbolico del moderno movimento di liberazione Lgbt+.
A tenerne viva la memoria sono innanzitutto i Pride, che, inizialmente chiamati Christopher Street Liberation Day March, si tengono dal 1970 annualmente in giugno (ma non solo) ben al di là dei confini statunitensi. Ma proprio i Pride, spazi di libertà per antonomasia in cui chiunque marcia orgogliosamente come vuole – e giustamente lo si puntualizza a fronte delle periodiche e trite polemiche sulle modalità partecipative –, possono, e talora si traducono, in marginalizzazione, isolamento, esclusione di soggettività Lgbt+ singole o comunitarie. Capitò agli albori alle componenti dello S.T.A.R. (Street Transvestite Action Revolutionaries) sì da indurre Sylvia Rivera a tenere il famoso discorso del Gay Power al termine della Christopher Street Liberation Day March del 28 giugno 1973.
Sta ora capitando, mutatis mutandis, a Polis Aperta che pure sta sgretolando, al pari di altre associazioni europee, americane, oceaniane di militari o forze dell’ordine rainbow, lo storico muro di antagonismo tra polizia e comunità Lgbt+. Lo rilevava nel 2018 un componente del direttivo: «Noi in qualche modo facciamo nostri i moti di Stonewall, li rivendichiamo come esempio di quello che la polizia oggi nel 2018 non può e non deve mai più fare. Gli abusi delle forze di polizia quel 28 giugno 1969 hanno creato quella scintilla da cui è divampata quella fiamma fortissima che è il movimento Lgbt+. Quella fiamma che porta oggi gli operatori di polizia Lgbt+ non solo a non osteggiare i Pride, ma addirittura a sfilarvici e organizzarli». Ma con vistose differenze con quanto avviene in molti Paesi dell’Occidente, dove alle marce dell’orgoglio agenti sfilano in divisa mentre da noi vigono ancora appositi divieti, come da regolamento interno.
Forse lo ignora chi continua a menare il can per l’aia con un tale fantomatico argomento, mentre bellamente sottace che anche a Bologna ci si è dovuti recare in Questura per i relativi permessi e che oggi le forze dell’ordine saranno presenti per garantire lo svolgimento sicuro del Pride. Il quale, nonostante tutto, vedrà alla fine una massiccia e festosa partecipazione.