Le sorti di una storia millenaria E se Giulio Cesare fosse diventato sacerdote di Giove?

Luca Fezzi in “Roma in bilico” (Mondadori) racconta le svolte e gli scenari imprevisti della città eterna, in un viavai di episodi e personaggi miracolosi

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I rischi di una gioventù patrizia

Il giovanissimo Cesare non era votato a una carriera politica e militare; solo un insuccesso la rese possibile. Almeno così sembra. Era stato infatti scelto per rivestire un incarico vitalizio di estrema rilevanza, quello di flamen Dialis. Si trattava, nientemeno, che del sommo sacerdozio di Giove, la maggiore divinità dell’Urbe.
Nella gerarchia delle cariche religiose, per prestigio, la funzione era inferiore solo a quella del rex sacrorum, che aveva assunto le funzioni cultuali degli antichi re. Precedeva, invece, gli altri due principali flamines, di Marte e Quirino, e persino il pontifex maximus, il «pontefice massimo», costruttore di ponti tra il divino e l’umano, sommo custode ed esperto della religione (quale Cesare sarebbe poi diventato nel 63 a.C.).

La vita del flamen Dialis era regolata da numerose e a noi non facilmente comprensibili restrizioni, evidentemente volte a evitare la contaminazione dei riti. Tra le tante non poteva andare a cavallo o vedere un esercito in armi, perciò raramente era nominato console un flamine diale, in quanto ai consoli spettava di condurre la guerra. Non poteva neppure uscire dalla Penisola italica.

Il predecessore del nostro, Lucio Cornelio Merula, aveva messo in atto un suicidio rituale, come forma di devotio, «autoconsacrazione» volta a preservare la collettività, nella tradizione dei molti eroi romani che l’avevano attuata sul campo di battaglia, lanciando una maledizione contro la fazione di Gaio Mario, che dopo un pesante assedio si era impadronita dell’Urbe.

Dai tempi di Annibale, infatti, le cose erano molto cambiate. Roma, abbattuta la potenza cartaginese e saldamente penetrata nella Penisola iberica, in quella balcanica e in quella anatolica, dominava ormai gran parte delle terre che si affacciavano sul Mediterraneo. Dopo una tremenda guerra contro gli alleati, aveva inoltre concesso la cittadinanza a tutti gli abitanti della Penisola italica. Ma, tra gli stessi romani, serpeggiava la violenza politica, inaugurata dall’assassinio del tribuno della plebe Tiberio Sempronio Gracco (133 a.C.).

Ormai divisi in «popolari» e «ottimati» (banalizzando, «progressisti» e «conservatori»), i concittadini iniziarono a farsi guerra tra loro. Quando poi gli eserciti diventarono semiprofessionali, costituiti non più da cittadini possidenti in servizio obbligatorio ma da nullatenenti volontari che lì cercavano un mezzo per vivere, la fedeltà ai compagni e al comandante prevalse su quella alla res publica. Si ebbe così un altro salto di qualità: il bellum civile, lo scontro tra eserciti cittadini.

La triste stagione iniziò dopo che Lucio Cornelio Silla, console nell’88 a.C., condusse contro l’Urbe ben 6 legioni, dichiarando di voler tutelare la res publica in una situazione difficile. A renderla tale erano le tensioni interne, fomentate dal «popolare» Gaio Mario, zio di Cesare, più volte console ed eroe romano per avere salvato la Penisola italica dall’invasione delle popolazioni germaniche di cimbri e teutoni. Silla ebbe la meglio, partendo poi per una guerra nel Ponto, nel Nord-est dell’odierna Turchia. La stabilità così raggiunta era illusoria: l’anno seguente, armate romane guidate da «popolari», tra cui Mario, assediarono l’Urbe, prendendola per fame e costringendola a capitolare. Fu allora che Merula si uccise.

Con chi sostituirlo? Si pensò al giovanissimo Cesare, forse solo tredicenne. A farlo furono gli stessi vincitori. Bisogna però escludere che Cesare abbia realmente rivestito il sacerdozio. Egli era stato solo destinatus, vale a dire designato per ricoprire l’incarico, che sarebbe rimasto vacante, dalla morte di Merula, per ben 75 anni. Del resto, la scelta costituiva solo l’inizio di una lunga procedura, controllata dal pontifex maximus a partire da tre candidati tra i quali se ne sceglieva uno.

In quegli anni, e forse più precisamente nell’84 a.C., Cesare si sposò con Cornelia, la figlia del console Lucio Cornelio Cinna. Non sappiamo invece per quale ragione egli non divenne mai flamen. Non possiamo escludere un «boicottaggio» da parte del pontifex maximus, nemico del nuovo «regime», né che Cinna avesse altri e più gravi pensieri.

Silla infatti, tornato nella Penisola italica alla testa di un esercito vittorioso, si rimpadronì del potere e alla fine dell’82 a.C. fu proclamato dittatore. La sua magistratura straordinaria fu diversa da tutte quelle che l’avevano preceduta, volta a restituire la stabilità alla res publica, votata dall’assemblea popolare e apparentemente senza limiti temporali (che precedentemente non dovevano superare i 6 mesi). Fu quindi la volta delle proscrizioni, un elenco di cittadini la cui punizione fu lasciata all’iniziativa privata: migliaia di romani caddero sotto i colpi dei «cacciatori di teste», in cerca di ricompensa o degli averi degli uccisi, spesso «colpevoli» solo di essere benestanti.

Ed ecco, in quel clima, si ebbe un’altra svolta, che trasformò il giovane Cesare in un uomo in fuga, come narrano i suoi due biografi.

Silla – anche per il fermo rifiuto di divorziare da Cornelia – lo avrebbe voluto mandare a morte. Ai tanti che gli facevano osservare che si trattava solo di un giovane, il dittatore rispondeva che in lui vedeva molti Marii. Cesare dovette nascondersi in Sabina, spostandosi continuamente. Una notte, mentre veniva trasportato, ammalato, in un rifugio, cadde nelle mani di soldati in perlustrazione.

Riuscì a cavarsela corrompendo il loro capo con 2 talenti (12.000 denarii). Raggiunta la costa, partì poi per la lontana Bitinia, nel Nord-ovest dell’odierna Turchia. I mezzi economici non gli mancavano. Il pericolo allora corso è confermato anche da altre fonti. Il biografo Svetonio sostiene che, tormentato dalla febbre quartana – una forma malarica con innalzamento della temperatura ogni quattro giorni –, Cesare dovette cambiare rifugio quasi ogni notte, sino a che non ottenne il perdono, grazie all’intercessione delle vestali e di altri importanti personaggi a lui legati.

La variante è notevole: implica infatti che il giovane, nonostante tutto, avesse le spalle discretamente coperte.

 

Da Roma in bilico. Svolte e scenari alternativi di una storia millenaria di Luca Fezzi (Mondadori), 200 pagine, 22 euro

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