Avrei i denti separati. I due incisivi superiori, quello spazio che tecnicamente si chiama diastema, quello che se sei Léa Seydoux fa strafiga mondiale e se sei Amy Winehouse fa tossicodipendente destinata a morte prematura.
Quand’ero alle elementari mio cugino mi fece lo sgambetto, caddi a faccia in avanti (sempre stata agilissima), gli incisivi si ruppero. Il dentista me li ricostruì attaccati. Sono passati più di quarant’anni, li ho dovuti rifare qualche volta, e ogni volta ho la tentazione di dire: me li lasci separati. Poi non lo faccio mai.
Se sei Madonna Ciccone, e prima di uscire ti fai due ore di trucco e parrucco, e non c’è una parte dei tuo corpo che non sia tonica perché hai dedicato a tenerti in forma il tempo che io ho dedicato a mangiare carboidrati unti, allora i denti separati sono un vezzo. Se sei Guia Soncini, ed esci coi pantaloni con l’elastico perché mica ti metti a dieta, e le tette sballonzolanti perché il reggiseno t’infastidisce, allora i denti separati sono tutto ciò che ti manca per sembrare una barbona e vederti rifiutare l’accesso ai locali pubblici.
Ventitré anni fa, alla prima londinese di Notting Hill, Julia Roberts aveva trentun anni, era al massimo del suo splendore, aveva appena fatto la miglior commedia romantica di fine secolo, e aveva i peli sotto le ascelle. Qualcuna di noialtre, disgraziate pagate per raccontare i costumi delle celebrità e i di essi riflessi sull’universo dei mortali, provò a parlare di nuova tendenza, ma ci veniva da ridere: è Julia Roberts, ti pare che i peli suoi possano fare l’effetto dei miei?
Venerdì mi è arrivato un messaggio dalla presentazione del libro d’una militante di Instagram. La persona che era lì voleva sapere che senso avesse che una truccata messinpiegata balconcinata e tutte cose poi non trovasse quindici secondi per passarsi un rasoio sotto le ascelle.
Dicono le nuove militanti che devono cambiare i criteri estetici. Criteri che hanno una loro logica: una volta andavano le grasse perché essere grassa voleva dire avere accesso non contingentato al cibo, e quindi essere ricche; adesso se sei ricca puoi permetterti il tofu e il pilates e sarai sottile (sorpresissima: i criteri estetici sono criteri di classe).
Quello che vorrebbero dire le militanti è: i criteri estetici vanno aboliti, vogliamo un’estetica in cui siamo tutte considerate belle. Solo che la bellezza esiste se esiste la bruttezza: tutte belle è come nessuna bella, tutte belle significa che «bella» non vale più niente, è la svalutazione fuori controllo. Quel che dovrebbero dire è: ma chi se ne fotte di essere bella, se non sei pagata per esserlo, se non è il tuo mestiere esserlo, se non sei così geneticamente fortunata da esserlo senza sforzo.
Ma non riescono a dirlo, perché da Mogol e Battisti in su e in giù la dialettica degli umani si è plasmata sul dirci l’un l’altra che siamo comunque belle, mica che siamo dei mezzi cessi ma per fortuna veniamo valutate per altro.
E quindi dicono che bisogna cambiare i criteri, per includere i peli sotto le ascelle come dettaglio attraente. E nessuno obietta che cambiare i criteri vuol dire modificare la categoria delle escluse: qualunque criterio tu ponga, escluderà qualcuna, magari quella con le ascelle con l’alopecia. Nessuno fa questa obiezione, neppure io, giacché oggi vorrei formularne un’altra: come la mettiamo col desiderio?
Al desiderio non si comanda, e puoi mettere ascelle pelose in tutti i servizi di moda, ma non puoi costringere nessuno a trovare attraenti le ascelle pelose, o i denti separati, o i rotoli di trippa sborsati dai pantaloni. L’assenza di desiderio è peraltro molto riposante (sono solita aprire le conversazioni con sconosciuti raccontando che, per ovviare al dramma d’avere molte tette nella stagione calda, tengo in frigo delle bottiglie di birra da infilare nel sottotetta sudato; a quel punto è ragionevolmente certo che lo sconosciuto non mi considererà un oggetto del desiderio e la serata trascorrerà serena); ma, per apprezzarla, occorre essere più risolte di quanto lo sia la più parte dell’umanità.
La vicenda della docente transessuale che si è uccisa è drammatica per ogni tipo di pubblico, persino per quella fascia che finge di considerare gioiosa la convinzione che cambiare genere sessuale cheterà il tuo mal di vivere: siamo un’epoca così fessa da aver fatto della malattia mentale un’ambizione. Venerdì su Repubblica intervistavano una sua ex allieva che stigmatizzava i comportamenti dei suoi ex compagni di scuola (insensibili son sempre gli altri) e dei loro genitori, che la guardavano come un fenomeno da baraccone.
Se al cinema ridiamo di uno che scivola su una buccia di banana, è perché sappiamo distinguere la finzione cinematografica dalla vita? O, piuttosto, perché se ti scappa da ridere ti scappa da ridere, e nella vita poi magari dopo cinque secondi a quello che è scivolato chiedi se si sia fatto male e abbia bisogno d’aiuto, ma i primi cinque secondi ridi? Trovare ridicolo qualcosa è cultura e non natura, obietteranno i miei piccoli lettori, e gli allievi della suicida andavano educati alla diversità, e così i loro genitori. Ma non funziona così: puoi educarli a capire che quel qualcuno ha diritto ad avere gli stessi diritti, puoi istruirli a non essere così cafoni da sghignazzare in pubblico, ma non puoi costringerli a non trovare qualcuno buffo, mostruoso, diverso. Al ridicolo, come al desiderio, non si comanda.
Oltretutto, impegnati come siamo a dirci come dovremmo essere tolleranti e non giudicanti («non giudicate» è il più fesso precetto della militanza contemporanea: «mi piacciono i peli sotto le ascelle» è giudizio tanto quanto «non mi piacciono», i giudizi sono il modo in cui gli esseri viventi si relazionano), trascuriamo il dettaglio più orrendo: l’appropriazione di cadavere. Nessuno, neanche chi lo fa, sa perché ci si suicida; ma noi sappiamo che è per portare avanti la polemica che c’interessa in quel momento.
Molti anni dopo quella primavera del 1999, una militante di buona volontà ha lodato Julia Roberts per quel suo gesto femminista, per quell’abbattimento dei canoni, per quell’affermazione identitaria. Roberts ha risposto che no, veramente si era solamente sbagliata a calcolare quant’era sbracciato il vestito, e che alzando il braccio per salutare la folla si sarebbero visti i peli. «È che sono scema», ha concluso. Solo che, siccome era Julia Roberts, il suo essere ridicola e pelosa e raccapricciante non fu tale: era Julia Roberts, poteva permettersi anche i peli sotto le ascelle. Era Julia Roberts, e quindi aveva il desiderio garantito. Giacché nella società degli umani mutano i tempi e i criteri estetici, ma una costante rimane: essa è iniqua.