La Sardegna è invasa dalle cavallette. La storia si ripete da centinaia di anni e una soluzione definitiva non si è mai trovata. La si sta cercando, certo, ma forse la consuetudine è quella di nascondere la testa sotto la sabbia. O, per restare in tema, tra le buche scavate nel terreno dalle Dociostaurus maroccanus, nome scientifico e poco romantico della specie che infesta l’Isola.
La zona colpita è quella storica, l’epicentro della Valle del Tirso, che passa da Ottana, Bolotana, Sarule, Orani, Orniferi, Olzai, ma che si sta spostando. Dove, non si sa. Così come non si possono quantificare, in questo momento, i danni economici. I dati sono allarmanti e raccontano un finale quasi già scritto. Nel 2019 sono stati 2 mila gli ettari di terra colpiti dal fenomeno, nel 2020 15 mila. Oggi si contano già oltre 30-40 mila appezzamenti di terreno in sofferenza per una piaga che sembra essere legata a doppio filo all’esistenza stessa dell’uomo.
Parliamo di un qualcosa che esiste da tempi biblici e, se un tempo, si pensava fosse un qualcosa mandato da Dio per punire gli uomini, oggi le cause si conoscono e sono strettamente connesse alle soluzioni da usare per debellare la voracità delle cavallette. Condizioni ambientali e terreni incolti sono le parole chiave in grado di correlare origine e rimedi. Il cambiamento climatico passa infatti anche per la Sardegna. E la sferza, prendendo il posto del più tradizionale vento di maestrale. Insieme, un abbandono dei campi, che diventa, anno dopo anno, sempre più importante, lasciando la terra in balia di nuovi abitanti, altrettanto affamati e, sicuramente, più prolifici delle persone.
Le cavallette hanno un ciclo riproduttivo annuale. Depongono le uova, a una profondità di 10 centimetri, alla fine dell’estate. Lo fanno in terreni tendenzialmente aridi e compatti. In primavera, verso la fine di maggio, le uova si schiudono, dando vita a una nuova generazione, che agli inizi è ancora eliminabile e può essere distrutta con trattamenti chimici. Il dopo è quello che stiamo vedendo adesso. Sciami che si spostano con velocità e forza sempre maggiori alla ricerca di cibo e di verde da sterminare. Se è vero però che si tratta di insetti con una capacità riproduttiva notevole (ogni femmina depone in media circa 30 uova), è anche vero che qui si annida il loro punto debole. «Alla fine dell’estate abbiamo già il numero di uova nel terreno, che segnano esattamente il potenziale di insetti che potremmo avere in primavera», spiega Luca Ruiu, professore associato all’università di Sassari. «Se questi insetti aumentano di numero e le condizioni saranno ancora favorevoli, l’anno dopo ci saranno più cavallette. È un fenomeno naturale. È un ciclo». Ma perché ci si trova impreparati quando questo avviene?
In sostanza, le cavallette possono essere combattute in due modi principali: quando sono allo stato di uova, andando a movimentare la terra ed esponendole agli eventi atmosferici, o quando sono ancora senza ali, eliminandole con i trattamenti. A queste due se ne aggiunge una terza, che è quella di farsi aiutare dall’ambiente, attraverso predatori naturali, come ad esempio i coleotteri.
Facciamo, però, un salto indietro nel tempo, al 1946. Quando l’Italia si preparava a scegliere tra Repubblica e Monarchia, la Sardegna allestiva una nuova lotta. Nella Domenica del Corriere, proprio di quel 2 giugno storico, in apertura si legge: «L’invasione delle cavallette. Contro le voracissime locuste che infestano molte zone della Sardegna e minacciano di divorare i raccolti sono in corso vere e proprie battaglie. Contadini armati da lanciafiamme attaccano le zone più infestate distruggendo in pochi minuti milioni e milioni di quei terribili insetti». La copertina è l’immagine stilizzata di una guerra vera e propria, con il popolo sardo impegnato a cercare di riprendersi 1.500.000 di ettari strappati dalla ferocia di questi insetti.
Oggi, la situazione sembra essere tornata a quei giorni. Gli strumenti utilizzati sono diversi, ma la paura è la stessa. Soprattutto da parte di chi quella terra la vive come mezzo di sostentamento. Sono tante le accuse buttate in mezzo, tante le voci che si levano in aria per cercare di dare eco a un problema annunciato e, forse, sottovalutato.
La Regione ha messo in campo un’unità di progetto, insieme a Laore, l’Agenzia per l’attuazione dei programmi regionali in campo agricolo e per lo sviluppo rurale, e all’Università, dove Ignazio Floris, entomologo di fama mondiale, ha preso le redini della consulenza scientifica.
Per ora è stata creata un’applicazione, tramite la quale i proprietari dei terreni possono segnalare la presenza degli insetti, a cui poi fa seguito l’invio di una squadra per il trattamento con la Deltametrina, sostanza chimica già utilizzata nella lotta alla Culicoides imicola, l’insetto vettore della Lingua Blu. E allo stesso tempo, è di qualche giorno il bando che prevede l’assegnazione di aiuti economici ai soggetti colpiti nell’anno 2020. Ristori che tardano ad arrivare, sono insufficienti (400 mila euro per il 2020 e altri 800 mila da suddividere per il triennio 2021 -2023) e che appaiono comunque un palliativo rispetto a quelle che dovrebbero essere le misure.
Perché se la comunità scientifica è concorde sulle mosse messe in campo dalla Regione e aspetta di avere dati precisi per l’elaborazione di una strategia, dall’altra parte ci sono loro, contadini e allevatori messi in ginocchio nel loro pane quotidiano.
E qui che si inserisce l’appello delle associazioni di categoria. «Bisogna fare comunicazione – dice infatti Alessandro Serra, direttore di Coldiretti Nuoro-Ogliastra – l’apparato regionale deve comunicare meglio con le amministrazioni comunali e con i territori, dando dei riferimenti. Quanto tempo ci vorrà, verso quali aree stanno migrando per fare prevenzione, quante unità dovrebbero servire, quale impatto queste misure avranno sull’ambiente. La nostra ipotesi è quella di coinvolgere la forestale e fare un percorso di bruciature controllate. Perché laddove le cavallette hanno devastato tutto, non si andrebbe neppure a danneggiare l’habitat e l’ecosistema. Bruci e continui a contingentare questa piaga».
Una proposta che si inserisce in una più ampio programma, capace di modificare anche le condizioni economiche dell’Isola. «Dobbiamo riprendere a produrre – continua Serra – negli ultimi anni abbiamo importato la maggior parte di granella dall’estero. Abbiamo quasi 200mila ettari di terreni irrigabili e oggi se ne irrigano pochissimi. Riprendere a produrre e tenere sotto controllo i rincari, perché produciamo direttamente noi, andrebbe a migliorare un’ecosistema, che diventerebbe un valido deterrente per le ondate di cavallette».
Da granaio d’Italia a deserto di colture. È la filiera quindi che diventa protagonista e si fa portatrice di un futuro diverso e più preparato alle catastrofi. Si tratta di invertire le politiche, facendo accordi, in grado di mettere in contatto chi produce e chi distribuisce. Trovare uno sbocco, un’economia circolare, equa e a chilometro zero: è il progetto sempre di Coldiretti, Ri-coltiviamo la Sardegna, per ripartire dalla terra con la messa in attivo di 100 mila ettari di terreno, che garantirebbero da una parte una la produzione del 40% dei mangimi da destinare agli allevatori e di riuscire ad avere un’autosufficienza produttiva, e dall’altra di tenere sotto controllo le invasioni cicliche delle cavallette.
Sono proposte, per l’ambiente, per l’economia e per le emergenze. Al pari della possibilità, magari, di utilizzare quelle uova, ancora chiuse, per farle entrare nella catena alimentare. «È una ipotesi da studiare ma potrebbe essere un risvolto interessante» – ammette Ruiu.