Grano indianoLa crisi delle materie prime deve fare i conti con il cambiamento climatico

A metà aprile, l’India era «pronta a nutrire il mondo» con il suo grano, un mese dopo ha bloccato le esportazioni a causa degli effetti dell’ondata di caldo sui raccolti (e sui prezzi). Perché il climate change è anche questo: piani stravolti e conseguenze pervasive, oltre che imprevedibili. A maggior ragione in un periodo di squilibri geopolitici

AP Photo/LaPresse

Nel 2021 il Programma alimentare mondiale (Pam) delle Nazioni Unite ha definito la crisi alimentare in Madagascar – che ha vissuto la sua peggior siccità degli ultimi 40 anni – come «la prima ad essere causata dal riscaldamento globale». «ll cambiamento climatico pone sfide significative alla sicurezza alimentare mondiale. Le mutazioni a lungo termine di temperatura e umidità stanno già influenzando le pratiche agricole e la produzione agricola», ha sottolineato l’European food safety authority (Efsa) della Commissione europea. 

Ora, anche l’India teme una situazione paragonabile (per quanto potenzialmente diversa a livello di impatto sul resto del mondo) a quella dell’isola africana, con effetti che potrebbero sommarsi alle difficoltà del conflitto in Ucraina e colpire decine di milioni di persone. Specialmente nelle aree più povere del pianeta. Il Paese asiatico, a causa di una delle ondate di caldo più violente della sua storia e di un conseguente aumento dei prezzi, nei giorni scorsi ha preso una decisione drastica e accompagnata da polemiche e timori, in quanto destinata a inasprire l’attuale crisi delle materie prime (che potrebbe trasformarsi in una crisi alimentare): bloccare l’export di ogni tipo di grano, per paura delle carenze interne dovute ai danni delle temperature vicine ai 50°C sui raccolti. 

Un terzo del grano esportato annualmente nel mondo proviene dall’India e dall’Ucraina, dove i porti sono bloccati. Inoltre, sempre a causa della guerra, anche la produzione in Russia (primo esportatore al mondo di grano) ha subìto una brusca frenata. E la Cina, che a febbraio ha approvato l’importazione di grano e orzo da tutte le regioni russe, sta attraversando preoccupanti tempi di magra. Capirete bene, quindi, la rilevanza del provvedimento indiano, scatenato non dalla guerra bensì dagli effetti del climate change sui raccolti: le temperature elevate, la siccità, la desertificazione

Del resto, nel novembre 2021, anche la Nasa aveva lanciato un avvertimento da non prendere sottogamba: a causa del riscaldamento globale, «la produttività delle colture globali potrebbe risultare alterata nei prossimi 20 anni, diversi decenni prima delle stime basate sulle proiezioni dei modelli precedenti», si legge nello studio dell’agenzia spaziale americana, che ha pubblicato i risultati sulla rivista Nature Food. 

L’ondata di caldo che sta mettendo in ginocchio l’India, così come il Pakistan, è «coerente con quello che ci aspettiamo in un clima che cambia: le ondate di calore saranno più frequenti e intense, e inizieranno prima che in passato», ha spiegato l’Organizzazione meteorologica mondiale (Omm) per approfondire il legame tra la crisi climatica e le temperature attuali nei due Paesi asiatici. 

Le condizioni meteorologiche avverse stanno danneggiando le piante prima dei raccolti e impedendo a braccianti e agricoltori di lavorare quando il sole è alto. Le temperature elevate stanno avendo un impatto negativo non solo sull’agricoltura, ma anche sulla rete elettrica e sui trasporti ferroviari. In più, ci sono alcuni esperti che temono inondazioni improvvise dovute allo scioglimento dei ghiacciai dell’Himalaya. Il risultato di tutto ciò? L’inflazione annuale indiana ha toccato l’8,38% (dato peggiore degli ultimi otto anni), spingendo il governo di Narendra Modi ad adottare una scelta protezionistica. E pensare che, il 15 aprile 2022, il ministro del Commercio e dell’industria Piyush Goyal ha detto che «gli agricoltori indiani, mettendo da parte un eccesso di riserve, stanno nutrendo il mondo», prevedendo un raccolto record di 111,3 milioni di tonnellate. L’obiettivo indiano consisteva nell’esportare 10 milioni di tonnellate di grano nel corso del 2022, guadagnando così nuove quote di mercato. 

Una previsione forse un po’ ottimistica, considerando che in India la siccità e le temperature proibitive non sono problemi sorti nell’ultimo mese. Stando a uno studio pubblicato su Nature a febbraio, nell’India centrale e centro-meridionale i fattori antropogenici responsabili del cambiamento climatico starebbero causando ondate di caldo più intense, lunghe e frequenti. Il climate change, con i suoi effetti pervasivi in una società globalizzata come la nostra, è anche questo: imprevedibilità e piani stravolti da una settimana all’altra. Se non si fosse verificata questa ondata di grande caldo, difficilmente l’India sarebbe arrivata a una simile conclusione. Indipendentemente dalla guerra in Ucraina, che rimane un co-fattore da non sottovalutare. 

Il governo indiano ha spiegato che l’improvviso aumento dei prezzi – connesso anche agli effetti sui raccolti delle temperature elevate – sta minacciando la sicurezza alimentare del Paese. Da qui la decisione di bloccare l’export, contraddistinta da pochissime eccezioni. Una di queste riguarda l’Egitto, che ad aprile ha accreditato l’India come nuovo fornitore di grano: il 15 maggio Nuova Delhi ha spedito verso il Cairo una nave con un carico di 60.000 tonnellate di quello che, ultimamente, viene spesso definito “oro giallo”.

Al netto dei casi simili a quello egiziano, il provvedimento dell’India – spiega il New York Times – «potrebbe essere un duro colpo per le organizzazioni internazionali che lavorano al contrasto della crescente minaccia della fame nel mondo». Il Programma alimentare globale (Pam) delle Nazioni Unite stima che la scelta dell’India – sommata agli effetti della guerra in Ucraina – potrebbe portare 47 milioni di persone nel mondo a soffrire la fame nei prossimi mesi. L’Onu, all’inizio di maggio, aveva raccomandato ai principali produttori di grano di non vietare le esportazioni, ma l’India – secondo produttore globale dopo la Cina – ha puntato su una via differente. 

Il noto economista agricolo indiano Ashok Gulati ha spiegato che «se c’è un’impennata di prezzi a livello globale, puoi domarla aprendo i confini e non chiudendoli». L’aumento delle politiche protezionistiche dovute principalmente alla guerra – ma anche alla siccità e alle temperature elevate, nel caso dell’India – esporrà 53 Paesi al rischio carestia. Lo ipotizza la Coldiretti, aggiungendo che le popolazioni di questi Stati «spendono almeno il 60% del proprio reddito per l’alimentazione»: ecco perché potrebbero soffrire profondamente l’aumento dei prezzi del grano.

Come spesso accade, ne risentiranno le economie dei Paesi più poveri ed esposti agli effetti del riscaldamento globale: due peculiarità che, purtroppo, coincidono frequentemente. Stiamo parlando dei principali importatori di grano dall’India: Bangladesh, Nepal, Sri Lanka, Yemen, Afghanistan, Indonesia, Oman e Malesia, ma anche Emirati Arabi Uniti e Qatar. La decisione di Nuova Delhi, sottolineano i Paesi del G7, «servirà solo ad aggravare la crisi di approvvigionamento». Il cocktail composto dagli attuali squilibri geopolitici e il cambiamento climatico – che fa da sfondo perenne alla nostra vita quotidiana – potrebbe insomma rivelarsi indigesto per molti, troppi Stati. 

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