Divisioni incolmabiliPerché il price cap sull’energia russa potrebbe rivelarsi inapplicabile

L’intesa sul tetto al prezzo del gas e del petrolio russi raggiunta al G7 è un passo avanti da non sottovalutare. Ma le criticità appaiono insormontabili, e per non alterare il mercato continentale servono anche accordi multilaterali (difficili da raggiungere) con gli altri partner energetici. Europei e non

Mario Draghi e Olaf Scholz al G7 (AP Photo/LaPresse)

Dopo il Consiglio europeo di settimana scorsa sembrava tutto rimandato al prossimo autunno, ma durante il G7 in Baviera chiuso il 28 giugno c’è stata un’accelerazione che ha cambiato le carte in tavola. Come si legge sul comunicato finale del vertice, i sette Stati economicamente più avanzati hanno trovato un accordo per introdurre «misure immediate per garantire l’approvvigionamento energetico e ridurre gli aumenti dei prezzi causati da condizioni di mercato straordinarie, anche esplorando misure aggiuntive come il price cap», ossia un tetto ai prezzi del petrolio, del gas e degli altri idrocarburi provenienti dalla Russia. Gli obiettivi sarebbero quelli di ridurre la dipendenza dalle fonti energetiche del Cremlino e di mitigare gli effetti del rialzo dei prezzi.

La proposta formale (inizialmente incentrata sul petrolio) è arrivata da Yanet Yellen, segretaria al Tesoro statunitense, ma la spinta politica decisiva sul price cap sul gas pare l’abbia data Mario Draghi, capace di andare al di là delle potenziali opposizioni di una Germania (uno dei Paesi più dipendenti dal gas russo) che in fin dei conti si è rivelata più costruttiva del previsto. 

«Abbiamo dato un mandato con urgenza ai ministri su come applicare un price cap sul gas e sul petrolio. L’Unione europea accelererà il suo lavoro sul tetto al prezzo del gas, una decisione che accogliamo con favore», ha detto il presidente del Consiglio, che ha definito il G7 delle Alpi bavaresi «un successo» dovuto al fatto che i sette Paesi hanno mostrato «grande unità di vedute, in particolare per quanto riguarda la guerra in Ucraina e le sue conseguenze». La speranza di Draghi è che il tetto al prezzo del gas venga introdotto prima di ottobre. 

Se da una parte l’accordo raggiunto in Baviera è un ottimo passo avanti, dall’altra i dettagli ufficiali sono quasi assenti e non è affatto scontato che una misura così complessa – destinata a scombinare i mercati globali già sconvolti dalla guerra – si concretizzi. Servono delle spiccate doti negoziali, e al momento non è ancora sul tavolo una proposta concreta al riguardo. Il rischio è che il price cap rimanga uno slogan senza effetti, soprattutto perché diversi Paesi (gli altri grandi fornitori di gas come la Norvegia) non sono affatto d’accordo in merito alla sua introduzione. E altri Stati, come i Paesi Bassi, sono contrari (anche) perché temono ulteriori tagli da parte di Mosca. Mentre il tetto al prezzo del petrolio, secondo il Financial Times, si configurerebbe in un divieto di trasporto del greggio russo che viene venduto oltre una certa cifra, per il gas è tutto molto più incerto e delicato a causa della maggior dipendenza dell’Europa nei confronti della materia prima russa. 

«Siamo in una situazione di guerra, di fronte a embarghi, sanzioni e ritorsioni: ecco perché dobbiamo provare a mettere un price cap. Lo dobbiamo fare per l’inflazione, per l’economia europea. E anche come una sorta di ritorsione, per non dare tutti questi soldi alla Russia», sostiene Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, società indipendente di ricerca in campo energetico e ambientale. 

Per quanto riguarda il gas, le modalità di applicazione del price cap sono eterogenee: è un rompicapo. Innanzitutto, il tetto massimo al prezzo si può applicare a valle oppure a monte. Secondo Lucio Poma, capo economista di Nomisma, la soluzione più semplice e percorribile sarebbe la prima: «L’ipotesi di un tetto imposto a valle aiuterebbe le famiglie fragili e le imprese energivore. Si fisserebbe un cap entro cui il gestore, come l’Eni per l’Italia, non potrebbe dare il gas ai cittadini. Ipotizziamo 70 euro al megawattora».

In quel caso, continua Poma, «visto che il gestore paga il gas molto di più dalla Russia (ad esempio 120 euro), lo Stato deve riconoscere la differenza di 50 euro». Con Stato si intende ovviamente il cittadino, il contribuente: «Per l’Italia il costo sarebbe uguale, ma il gas verrebbe distribuito in maniera diversa (e auspicabilmente “giusta”, ndr) nelle diverse classi di reddito della popolazione». 

L’ipotesi di un price cap a monte è invece più complessa e rischiosa, anche in termini di ritorsioni da parte della Russia di Putin. In quel caso sarebbe il gestore (prendiamo sempre l’esempio italiano, ossia l’Eni) che si rifiuterebbe di pagare al fornitore (la Russia) più di, ad esempio, 70 o 80 euro al megawattora: «Sul tetto al prezzo applicato a valle decide lo Stato e si impone un differenziale. Ma con un price cap a monte la Russia non accetterebbe mai di darci il gas a 80 euro invece che a 120», sostiene il capo economista di Nomisma. 

In questo momento si sta verificando una sorta di braccio di ferro: da una parte c’è un “quasi monopsonio” (un accentramento della domanda) dell’Europa per il gas russo, mentre dall’altra continuiamo a soffrire il monopolio del Cremlino. Se vogliamo sperare in un minimo di cedimento da parte della Russia, servirebbe un vero e proprio stravolgimento: ora come ora, ogni Paese europeo tratta con Gazprom in modo indipendente, ma per imporre un tetto più basso l’Europa dovrebbe acquistare il gas in qualità di “cliente unico”: «A quel punto, dovrebbe ridistribuirlo ai singoli gestori dei vari Stati», spiega Poma, che non dimentica di sottolineare le criticità che aleggiano attorno a questa opzione.

«Così si rischia di alterare il mercato europeo. Ricordiamo che noi acquistiamo il gas anche dalla Norvegia, dall’Algeria, dall’Azerbaigian. Così avremmo una fetta di mercato con il gas al prezzo di riferimento (quello olandese, ndr), e un’altra fetta orientata a un prezzo più basso (quello imposto alla Russia, ndr): sarebbe un grosso problema, perché ogni Paese vorrebbe avere la parte che costa meno», spiega l’economista di Nomisma. 

Cosa servirebbe? Degli accordi multilaterali, che consisterebbero in un «price cap concordato anche con gli altri Paesi» che forniscono la materia prima al sistema europeo tramite gasdotto. Ma è molto difficile che questi Stati – Paesi Bassi, Norvegia, Algeria, Azerbaigian – accettino un price cap più basso. Stiamo parlando di economie che vendono il gas a prezzi fino a sei volte superiori rispetto ad anni fa: «Ora è sui 120 al megawattora, mentre un anno fa era a 20», specifica Tabarelli. 

«E poi, a parer mio, la Russia non cederà. Anche se l’Europa dovesse unire le forze. Il motivo? Perché Germania e Italia – e dico loro perché sono le più esposte – da qui a due anni non riusciranno a stare senza gas russo. Draghi ha fatto un ottimo accordo con l’Algeria per 9 miliardi di gas in più al 2024, ma stiamo parlando di un periodo breve», dice Lucio Poma. 

«L’Algeria, l’Olanda, la Norvegia devono cambiare rotta. Ho sentito di grandi industrie che sono disposte a chiudere per dei mesi per non consumare. Di fronte a ciò ci poniamo il problema del prezzo, ma non è una questione di contabilità: è una questione di molecole che mancano», conclude il presidente Tabarelli. Insomma, il tema è complesso, pieno di sfumature e di (fragili) equilibri. E le divisioni all’interno degli Stati membri dell’Ue appaiono incolmabili. Non ci resta che attendere le prossime settimane per avere informazioni più concrete dopo l’accordo raggiunto il 28 giugno in Baviera.