Nei manuali di scienza della politica, il termine tecnico è “hannorottoercà”.
Non passa giorno senza che i protagonisti dell’area liberal-democratica litighino come mocciosi su piattaforme social che trasformerebbero in macchiette anche giganti come Salvemini e Rosselli, figuriamoci i loro da noi amatissimi epigoni.
L’area liberaldemocratica in Italia è storicamente minoritaria quanto a consensi: un tempo si diceva che si sarebbe potuta riunire all’interno di una cabina telefonica o alle cene di famiglia dei Croce e dei Carandini, mentre nel 1989 ha dato pessima prova di sé costruendo una litigiosa lista alle Europee, il Polo laico, che racimolò un misero quattro per cento e spiccioli, ovvero più o meno quanto vale oggi l’unione (che peraltro non c’è) tra Azione, Italia Viva e Più Europa.
Eppure la strada che porta a dama è segnata: i leader devono mettersi d’accordo comportandosi da persone adulte, salvare il Pd da Rocco Casalino e quel che resta di Forza Italia da Salvini, ed evitare la catastrofe bipopulista anche nel prossimo Parlamento.
Matteo Renzi può piacere o no, e non piace praticamente a nessuno tranne che a questo giornale, ma il gruppo di Italia Viva è stato il cuore del miglior governo riformista dell’epoca recente, delle migliori scelte di personale politico, da Carlo Calenda a Paolo Gentiloni, anche perché è stato capace di riavviare la crescita interna e la credibilità internazionale dopo gli anni bui e soprattutto ha salvato per due volte il paese dalla bancarotta morale ed economica, prima fermando la chiamata ai pieni poteri di Matteo Salvini e poi prefigurando l’arrivo di Mario Draghi.
Carlo Calenda può piacere o no, e non piace a moltissimi tranne che a questo giornale, ma il leader di Azione è l’unico che sta provando a costruire in modo lineare un partito liberaldemocratico, con un lavoro indefesso fatto di passione, di studio e di attività sul territorio.
Emma Bonino può piacere o no, e come spesso le capita piace sempre molto purché non si metta in testa di voler governare, ma il gruppo dei radicali che le gira intorno quanto a meriti liberaldemocratici è il più affidabile e credibile su piazza.
Il Partito Democratico può piacere o no, e non piace a quattro quinti degli italiani e su queste pagine è spesso spronato a fare di più e meglio, ma da oltre un decennio è l’istituzione politica che ha retto con saggezza la Repubblica e continua a farlo anche sulla delicata questione dell’attacco russo alla democrazia liberale.
Piaccia o no ai leader in questione, e ai loro adepti che si fanno dispettucci adolescenziali, ma in natura non c’è essere umano in grado di capire per quale motivo costoro stiano tutto il tempo a litigare, incuranti di sprecare la gigantesca occasione per superare il bipopulismo creata dal governo di Mario Draghi e dalla rielezione di Sergio Mattarella.
Sono tutti egualmente responsabili, non ci sono buoni e cattivi in questa storia, non ci sono scuse, non ci sono “sì, ma però”, ci sono solo aspiranti leader dell’Italia migliore incapaci di costruire un Team of Rivals come quello formidabile che fu escogitato dal genio politico di Abramo Lincoln per salvare l’America dalla guerra civile.
La nostra squadra di rivali non sembra nemmeno litigare per contendersi gli stessi pochi elettori, visto che l’obiettivo è sempre quello di insultare l’avversario e, quindi, di conseguenza anche quello di alienarsi i rispettivi seguaci e i potenziali votanti.
I motivi per cui i leader dell’area Draghi non trovano pace sono caratteriali e personali, molto più che politici. Le differenze sono pressoché inesistenti, sia sui principi di governo sia sulle idee che indicano la via. La strategia politica è la medesima: contro il bipopulismo (bandiera elaborata da questo giornale), ma la tattica è diversa.
Renzi è un fulmine e prova acrobaticamente ad allargare il campo a quel che resta di Forza Italia, ai ministri draghiani e al personale politico non brillantissimo in fuga dal bipopulismo perfetto italiano e per questo si tiene le mani libere, fin troppo.
Calenda è più rigido nel tentativo di costruire un’offerta liberale e democratica fuori dai due poli, ma è anche meno politico, quasi impolitico, visto che ancora oggi sostiene che sarebbe stato meglio andare al voto dopo il Papeete, visto che era scettico sull’apertura della crisi del Conte due e, più di recente, visto che si è intestardito nel criticare la rielezione di Mattarella, dopo essere stato ineccepibile e solitario nel difendere il ruolo di Draghi a Palazzo Chigi, almeno fino alla sera precedente del voto decisivo.
Va bene essere rigorosi, anche rispetto a molte leggerezze dei renziani e vetero stramberie del Pd, ma l’effetto di elezioni anticipate nel 2019 sarebbe stato, senza considerare tutto il resto tipo consegnarsi a Putin, Orbán e Trump, quello di affidare la gestione della pandemia e dei rapporti europei ai para negazionisti del Covid e agli anti europei come Salvini e Meloni, così come sarebbe stato disastroso lasciare Conte e Arcuri a maneggiare il piano vaccinale e il Pnrr (che peraltro non erano in grado di approntare) e, qualche mese fa, anche eleggere il capo dei servizi segreti al Quirinale con le evidenti ripercussioni negative sulla stabilità di governo.
Emma Bonino, Benedetto Della Vedova e Marco Taradash provano a fare da pacieri, federandosi con Azione e tenendo aperto il confronto con Italia Viva e non solo, ma di fatto non ci riescono e sono troppo piccoli per farcela (lo stesso fa l’eroico Luigi Marattin, di Italia Viva).
Quasi ogni giorno, Calenda rilascia dichiarazioni perfette e condivisibili da spellarsi le mani per gli applausi, ma subito dopo le contraddice via Twitter con reazioni istantanee, spesso seguite da affettuose manifestazioni di solidarietà a Renzi perché sottoposto alla gogna giudiziaria costringendo tutti noi a un ottovolante di amore e odio da capogiro.
Renzi non gli risponde mai direttamente, cosa che probabilmente ferisce Calenda più d’ogni altra cosa, lasciando però che i suoi seguaci social imbrattino senza alcuna eleganza le bacheche del leader di Azione.
Il Partito democratico, ormai solo per antipatia nei confronti di Renzi e Calenda, oltre che per quella storica nei confronti dei radicali, immagina campi larghi con chi non vuole aiutare il popolo ucraino e con i rottami del populismo.
Non se ne può più.
La controprova della follia strategica delle forze liberal-democratiche che si fanno la guerra interna, una follia seconda soltanto a quella dell’alleanza strategica del Pd con i Cinquestelle, è che quando i liberal collaborano, come ai tempi del governo Renzi, o del sostegno a Draghi o della Lista Calenda a Roma o delle liste europee del Pd con Calenda e Renzi, i risultati sono sempre eccellenti sia in termini di risultati concreti sia di consenso reale, anche se poi subito dopo tornano tutti allegramente ad accusarsi di soprusi e di altre oscenità.
Il tempo adesso è pressoché scaduto, a questo punto dovrebbero smetterla di punzecchiarsi e agire seriamente per presentarsi al paese come la parte più aperta, innovativa e leale del governo Draghi, per allargare il campo contrario al bipopulismo facendo leva sui mal di pancia dei riformisti del Pd e dei liberali di Forza Italia e soprattutto per costruire le condizione, d’accordo con i fuoriusciti dai poli, per reintrodurre il sistema proporzionale in modo da mettere in sicurezza il paese e far continuare Draghi a governare il Piano di ripresa nazionale con i finanziamenti europei.
Qui in realtà c’è una divergenza sostanziale: Calenda e qualcuno di Più Europa tipo Taradash condividono la linea del nostro giornale per il ripristino della legge proporzionale, Renzi e Bonino no. Il Pd chissà.
Renzi resta convinto che il metodo migliore sia quello del “sindaco d’Italia”, o di qua o di là, perché è certo che, come in Francia, al ballottaggio gli italiani si coalizzerebbero contro il candidato populista. Speriamo che abbia ragione lui, ma qui siamo convinti del contrario, intanto perché l’Italia non è la Francia dove la salvaguardia della république prevale su tutto. Per questo, con molta cautela preferiamo non correre il rischio di eleggere il sindaco di tutte le Russie, anziché quello d’Italia.
Crediamo, infatti, che solo la suddivisione dei seggi in proporzione ai voti ottenuti alle elezioni possa far emergere una maggioranza adulta e draghiana in Parlamento, il luogo dove fino a prova di un cambiamento costituzionale di cui non ho notizia si formano le maggioranze di governo.
In Francia è andata bene, ma poteva andare male tipo roulette russa e Putin è stato a un solo proiettile dal conquistare Parigi anziché il Donbas. In America è andata male una volta e bene la seconda, ma viviamo l’angoscia che i golpisti trumpiani possano vincere la prossima.
Magari si dividessero davvero su questo: invece Renzi e Calenda, con il Pd che guarda compiaciuto, stanno lì a farsi i dispetti e – letto questo articolo, statene certi – anche a mettere il broncio all’unico giornale che li sostiene tutti insieme appassionatamente. E nonostante questo giornale sia infine arrivato, dopo un lungo approfondimento scientifico, all’alta conclusione politologica sintetizzata dal termine tecnico di cui alla prima riga.