Il recente voto del Parlamento europeo, che impone lo stop alla vendita di auto non elettriche a partire dal 2035 «è stata una grande delusione, una scelta ideologica», dice il ministro leghista dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti parlando con Il Messaggero. Al Mise si studiano gli effetti negativi che si produrranno nel nostro Paese, come anche in Francia e in Germania. «Perché il destino dell’auto non è solo elettrico, a meno che non si voglia fare un regalo alla Cina che su questo fronte è davanti a tutti».
Un concetto che anche il segretario della Lega Matteo Salvini ribadisce in un intervento sulla Stampa, rivolgendosi al segretario del Pd Enrico Letta, che invece sostiene la svolta green europea sulla mobilità. «A Strasburgo è andata in scena una rappresentazione che dimostra l’immaturità di una certa politica, che antepone visioni ideologiche e non realistiche alla tutela concreta degli interessi dei cittadini e dei lavoratori europei (e italiani in particolare)», scrive Salvini. Il pacchetto “Fit for 55”, continua, «in concreto rappresenta un duro colpo per l’automotive e non solo, mettendo a rischio centinaia di migliaia di posti di lavoro collegati al settore».
«Una politica realistica, che sappia coniugare tutela dell’ambiente e tutela del lavoro, avrebbe dovuto invece stanziare risorse importanti per avviare una riconversione produttiva, una formazione adeguata delle maestranze, un’indipendenza da Paesi extraeuropei della fornitura delle batterie», aggiunge il leader leghista. «Oggi l’Italia non produce batterie, mentre l’Europa ha un rilievo marginale; la produzione è concentrata soprattutto in Cina. Siamo veramente sicuri di voler mettere la mobilità italiana ed europea nelle mani cinesi?». Perché «se è vero che il Vecchio Continente sta investendo per aumentare la sua produzione, costruendo circa 40 gigafactory, è altrettanto vero che la Cina, e l’Asia in generale, stanno investendo per fare numeri ancora più grandi. Ci rendiamo conto che un termine di 13 anni è un soffio nel ciclo produttivo, e che senza un’adeguata strategia e pianificazione rischiamo di distruggere centinaia di migliaia di posti di lavoro e di ricreare, dopo il gas, un’altra dipendenza su un tema egualmente sensibile, da un Paese che potrebbe avere interessi confliggenti con i nostri?». E ancora, si chiede Salvini, «siamo sicuri che l’elettrico sia un favore all’ambiente, nonostante i pesanti interrogativi a proposito di produzione di batterie e smaltimento?».
Il ministro Giorgetti da mesi il ministro è preoccupato, guardando i ritardi della riconversione della filiera italiana. «È stata una decisione ideologica e ho sperato fino all’ultimo che prevalesse, in certi deputati di area di centrosinistra, la preoccupazione per le ricadute negative sull’occupazione», dice. «Così non è stato, purtroppo, l’inversione di tendenza che avevo auspicato non c’è stata. È mancata la consapevolezza del momento che stiamo vivendo. Di fronte alla sacrosanta e legittima ricerca di un mondo ambientalmente compatibile non sono state prese in considerazione le richieste per percorsi più lenti che ci consentissero di affrontare meglio questo delicato passaggio verso il green che la guerra in Ucraina sta inasprendo ancora di più».
Come uscirne? «La transizione ambientale deve tener conto anche delle ricadute sociali ed economiche su tutte le filiere altrimenti il futuro è l’eutanasia della nostra industria», risponde. «Non si può restare sordi di fronte alle voci di imprenditori e lavoratori e alle loro legittime preoccupazioni. Non facciamole diventare grida di disperazione. L’impostazione europea vuole imporre ritmi e ideologie che impattano negativamente su alcuni paesi come l’Italia, la Germania e la Francia». E aggiunge: «Non mi stancherò mai di dirlo: il futuro non è solo elettrico. L’ho detto più volte, io scommetto sull’idrogeno e magari con il tempo verranno sviluppate anche altre tecnologie. Bisogna fare attenzione a puntare tutto sull’elettrico: è una visione ideologica, miope che ignora la realtà industriale dell’Italia. Se accadesse davvero questo vorrebbe dire consegnare a alcuni Paesi asiatici anche il settore dell’automotive, perdendo autonomia produttiva e vedremmo quello che stiamo purtroppo vivendo con il gas avendo scelto, tempo fa come Italia, di affidarci agli approvvigionamenti dalla Russia secondo una logica finanziaria e non politicamente strategica, al servizio del Paese. Ecco dovremmo tutti fermarci e riflettere su questo».
Intanto, però, l’Europa sembra andare in direzione opposta, anche se poi spetterà ai singoli Stati articolare e modulare le scelte, magari cambiando direzione di marcia. «Ora inizieranno i negoziati ed è auspicabile che i governi nazionali migliorino un testo che rappresenta un pericolo molto serio», conclude Salvini.
In un’intervista alla Stampa, il commissario europeo all’Industria Thierry Breton prova a rassicurare le filiere europee dell’auto: «Il divieto di vendere veicoli con motore a combustione interna nel mercato Ue non significa che l’Europa dovrà smettere di produrre questi motori né i loro componenti. Perché i mercati mondiali continueranno ad avere bisogno di questi mezzi ancora per un po’ di tempo», dice.
Il provvedimento approvato dagli eurodeputati – che hanno appoggiato la proposta della Commissione – non è ancora definitivo perché ora i 27 governi dovranno esprimersi e trovare una posizione comune al tavolo del Consiglio Ue. Ma per il commissario la strada ormai è tracciata: «Il percorso verso la mobilità a emissioni zero è chiaro». Restano due grandi ostacoli: la creazione di una rete infrastrutturale per le colonnine elettriche di ricarica e soprattutto l’aumento della produzione delle batterie che deve fare i conti con le incognite legate alla disponibilità delle materie prime necessarie».
L’Ue ha lanciato nel 2017 l’Alleanza europea per le batterie che ha già sviluppato 111 progetti e mobilitato investimenti per 127 miliardi di euro, ma per raggiungere l’autosufficienza serviranno ulteriori 382 miliardi. «Abbiamo assicurato investimenti nella produzione», spiega il commissario, «dovremmo essere in grado di soddisfare il nostro fabbisogno entro il 2025. Ma i nuovi rischi riguardano le materie prime, visto che ci sarà un aumento significativo della domanda». I numeri che Breton elenca sono impressionanti: «La richiesta di litio aumenterà di 15 volte entro il 2030, quella del cobalto e della grafite naturale di quattro, mentre il fabbisogno di nichel triplicherà entro il 2050».