Altra stoffaStoria di come il mio ingresso è diventato il cimitero delle sportine

In pochi anni, la busta che molti considerano ecologica (non lo è) è passata da feticcio a fastidio. La gente mi riempie di tote bag gratuite e io, ingrata e inquinante, le lascio marcire e me ne vado a comprare altre

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Il cimitero delle sportine è in un angolo dell’ingresso, e se non parlate bolognese a questo punto vi starete chiedendo cosa sia una sportina, ma se vi trovaste nel mio ingresso lo riconoscereste, perché ogni casa ormai ha un cimitero delle sportine.

La sportina una volta era, alla cassa dei supermercati bolognesi, quella che nei supermercati romani è chiamata «una busta» (in quelli milanesi: «un sacchètto»). Ora le ho imposto uno slittamento semantico: la sportina è quella di stoffa, passata in pochi anni da feticcio a fastidio.

Siamo stati tutti abbastanza giovani da fare l’abbonamento di prova al New Yorker solo per avere la sportina in omaggio. Confesserò per non lasciarvi soli a vergognarvi: io due volte. Ieri mattina, dovendo frettolosamente riempire una valigia e non trovando nessuno dei sacchettini di stoffa forniti assieme alle scarpe costose appunto per metterle in valigia, la sportina verde del New Yorker mi è tornata buona: con la cultura magari non si mangia, ma si può almeno evitare che le scarpe sporchino i vestiti.

Ne ho persino una di Monocle: non credo di aver mai letto Monocle in vita mia, ma ho un evidente debole per le sportine di giornali più sofisticati di me. M’illudono che, se faccio la spesa usandole, proietterò come minimo l’immagine di una che abbia letto Knausgård.

Il che (la spesa, non Knausgård) ci porta all’inizio di questo delirio. Era il 2007, e Whole Foods (catena fighetta di negozi di alimentari americani) mise in vendita una poco più che sportina (aveva dei manici più strutturati di quelli che ora ha ogni sportina di stoffa vi omaggi qualunque posto in cui compriate qualunque cosa, pure i pannoloni), con la scritta: I’m not a plastic bag.

Era così brutta che persino io, che seguivo le mode come l’ottusa trentacinquenne che ero, mi rifiutai di comprarla. Negli anni successivi però comprai due sportine (non di stoffa ma di un tessuto improbabile ottenuto riciclando i tappi, o qualcosa del genere) da Whole Foods, e l’anno scorso ho trascorso il trasloco a recuperarle dalla spazzatura dove i traslocatori si ostinavano a buttarle.

La not a plastic bag era brutta, ma diede il via a un’illusione collettiva: le sportine sono ecologiche. Illusione che la stampa americana ha più volte provato a smontare: il New York Times ha citato uno studio danese del 2018 secondo il quale, necessitando il cotone di moltissima acqua per crescere, per ammortizzare l’impatto ambientale di una sportina di stoffa dovresti usarla ventimila volte, tutti i giorni per cinquantaquattro anni. Il che è impossibile giacché: il cimitero.

Oltre a essere la scelta fintamente ecologista per non mettere in circolo un altro sacchetto di plastica quando vai a far la spesa, infatti, la sportina è diventata il gadget preferito da tutti. Ieri pomeriggio sono arrivata a un festival culturale, e con che omaggio mi hanno accolto? Una latta di caffè contenuta in una sportina. A ogni festival al quale sia stata nell’ultimo anno mi hanno omaggiata di una sportina, così come molte delle cose che mi è accaduto di comprare di recente (delle lenzuola, per esempio) arrivano nelle loro brave sportine. Parte una nuova serie televisiva? Ti mandano la sportina. Un editore vuole che instagrammi un libro? Te lo manda nella sportina. Da cui: il cimitero.

Nel mio ingresso il cimitero delle sportine è attiguo agli scatoloni dei miei libri, le copie che mi manda l’editore quando sta uscendo un mio nuovo libro, e di cui non so mai cosa fare: mi rifiuto di omaggiare gli amici, se non ci spendono dei soldi poi finisce che non gli piace. I cadaveri, nel cimitero delle sportine, hanno un tratto in comune: sono in omaggio.

Il festival, la serie televisiva, le lenzuola: le loro sportine sono meno belle perché sono gratuite, o io non posso apprezzarle perché non le ho pagate? Di tutte le ragazze che vanno in giro fiere con la sportina del New Yorker, quante avranno dimenticato di disdire in tempo l’abbonamento di prova, epperciò quella sportina sarà loro costata i duecento o quanti sono dollari dell’abbonamento annuale?

Ero invidiosissima della sportina rosa e nera che sfoggiava un’amica: gliel’avevano mandata per la conferenza stampa d’apertura d’un museo bolognese. Alla prima occasione sono andata in visita al museo. Cioè: in visita al negozio del museo, a comprare la sportina. La alterno a una grigia e gialla, che mi sono fatta comprare in un negozio di formaggi londinesi. La gente mi riempie di sportine gratuite e io, ingrata e inquinante, le lascio marcire nell’apposito cimitero, e vado in giro con sportine a pagamento.

Devo però precisare che ne faccio un utilizzo ecologista: quelle del New Yorker e quella del formaggiaio, di cotone più spesso, reggono molto bene il peso dei vuoti quando devo portar giù le bottiglie per la raccolta del vetro. Valeva la pena coltivare cotone da ammortizzare in cinquantaquattro anni, per buttare le bottiglie vuote con una sportina chic.

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