«Non avevamo strumenti di registrazione, quindi ce le dovevamo ricordare». Lo dice Paul McCartney in un documentario del 2021, e sta parlando di sessant’anni prima. McCartney forse avete presente chi è: aveva un gruppo musicale con qualche amico, si chiamavano Beatles, non sono mai passati a Sanremo o a X Factor ma potreste averli sentiti nominare, hanno scritto qualche canzone di moderato successo.
Quando dice quella frase, McCartney sta rievocando una canzone il cui ritornello gli era venuto in mente mentr’erano in pullman, tra un concerto e l’altro. Si annoiava, e ha cominciato a mugolare un motivetto. «E poi ti svegliavi la mattina dopo, ed erano ancora lì, e quindi ti mettevi a suonarle e a sistemarle. E John se le ricordava comunque». Forse avete sentito nominare anche John, di cognome faceva Lennon.
«A un certo punto ci siamo resi conto che stavamo scrivendo canzoni memorabili non perché volessimo scrivere canzoni memorabili, ma perché dovevamo ricordarcele: era una ragione molto pratica». Ecco, questo è il punto in cui questo è diventato un libro postumo, perché io che lo stavo scrivendo sono morta. E certo, intendo «morta» come si usa nella semantica iperbolica dell’internet, come quando uno fa una battuta che ti fa a stento sorridere e gli dici «genio», come quando un amico mette sul mercato un proprio qualsivoglia prosciutto e gli dici «capolavoro»: questa frase di McCartney mi ha colpita così duramente che mi dichiaro morta. Non lo sono davvero, ma un po’ lo sono.
Morta di vergogna per ogni volta che mi è venuta in mente una frase, un’idea, una pagina cui non avevo pensato, e nella notte ho cercato a tentoni il telefono per incidere una nota vocale e non far cancellare dal sonno quella che era senza dubbio l’idea del secolo – e poi alla mattina era una ciofeca.
Per pareggiare se non siete per i Beatles ma per gli Stones, da ragazzina lessi un’intervista in cui Keith Richards raccontava che, quando non era con qualche signora, dormiva sempre con la chitarra e un registratore, e a volte nel dormiveglia strimpellava qualche idea, e una mattina si svegliò, e nel registratore c’era la sua voce impastata che faceva «na-na-na-na, satisfaction». E insomma questi facevano capolavori perché non avevano il registratore dietro, o scoprivano per caso capolavori nel registratore al mattino, e noi siamo pieni di attrezzi che non ci permettano di perderci neanche un singhiozzo di creatività, ma non mi pare di sentire molte “You Can’t Always Get What You Want”, in giro.
E sì, lo so che non è andata così, che quello di McCartney e quello di Richards sono entrambi marketing del prosciutto, che chiunque dica «io» in pubblico non si sta confessando, sta mettendo in scena uno spettacolo.
Quando, alla Biennale di Venezia del 2007, Sophie Calle espone centodue variazioni sulla mail con cui un porocristo l’ha piantata (mai piantare per iscritto una che per mestiere si mette in vetrina: tutto dobbiamo spiegarti, ragazzo), non fa una cosa diversa da quella di chi mette le proprie sfighe su Instagram. L’unica differenza è di certezza economica: lei per l’opera viene pagata sicuramente, la bottegaia dell’Instagram deve trovare qualcuno che le faccia scrivere un romanzo sul suo cuore infranto, o che la paghi per dire che solo la crema Tal de’ Tali le sgonfia il contorno occhi dopo i lunghi pianti.
Mi correggo: l’«io» inattendibile non è per forza quello palesemente pubblico. In fondo, l’esibire il proprio sé delle generazioni per cui il diario segreto è una pagina di Instagram non è molto diverso dai nostri diari col lucchetto, scritti in codice o come pizzini che dicessero cose che non avevamo il coraggio di dire a genitori che sapevamo li avrebbero scassinati con una forcina. La generazione senza vita privata, quella di chi ha venti o trent’anni oggi, salta, rispetto a chi venti o trent’anni ce li aveva nel secolo scorso, solo un passaggio formale: loro la vita privata neanche fanno finta di avercela.
Ma anche se ai Beatles e agli Stones le canzoni memorabili venivano per caso o per talento o per tutt’un complesso di cose, la domanda resta: nasce prima il meccanismo per cui vale la pena pubblicare tutto, o il declino di ciò che vale la pena pubblicare? Prima le piattaforme e la moltiplicazione dell’offerta, o la rarefazione del talento? Quanto siamo modellati dalla tecnologia che usiamo, e quanto la modelliamo? È un caso che la piattaforma delle immagini, quella che ha capito che in un’epoca di analfabeti laureati non era il caso di straziarci a leggere gli altrui penzierini, bastavano le foto, sia nata dopo un anno e mezzo di presidenza Obama? È esistita, in otto anni di presidenza Obama, una figura più fondamentale di Pete Souza, il fotografo che lo immortalava mentre gattonava assieme a un poppante o faceva due disinvolti tiri a basket o salutava qualcuno col pugnetto o faceva un comizio sotto al diluvio? E la fotogenia a prova d’acqua in faccia, non è essa un vantaggio competitivo che dovrebbe invalidare la gara, nel tempo in cui i governi del mondo si decidono su Instagram? (Se John Kennedy fosse un candidato di questo secolo, sarebbe concorrenza sleale).
Pete Souza è come quegli intervistatori che si scelgono solo intervistati con storie pazzesche: grazie, così siam buoni tutti. Ha fatto due volte il fotografo presidenziale, e la volta prima di Obama era stata quella della presidenza Reagan.
Certo, Ronald Reagan non era il mostro di fotogenia che è Barack Obama, ma era pur sempre un attore. Sapeva quant’era importante l’immagine, e alle immagini sapeva collaborare. La foto dei coniugi Reagan con Michael Jackson nella sala ovale è una foto che sembra già dell’epoca di Instagram, ed è di trent’anni prima.
Quando Obama termina il suo mandato presidenziale, a gennaio 2017, Souza s’improvvisa critico culturale, per così dire. Era stato zitto per otto anni, ma ha un archivio sterminato e ora, per ogni cazzata fatta da Trump, lui instagramma una foto di Obama impeccabile in qualche occasione analoga, con una frecciatina nella didascalia. (La moglie racconta d’averlo rimproverato: «Non puoi dire queste cose, tu non hai mai detto niente!»).
Quelle foto e relative frecciatine le raccoglierà poi in un libro, “Shade”, e nel 2020 Msnbc gli dedica un documentario in cui si ripete tutto il tempo che persona perbene e degnissimo presidente e insuperabile istituzione fosse Obama, mica come quel cialtrone di Trump, ma da cui si capisce nettamente come la presidenza Obama sia stata soprattutto un fatto di fotogenia, e non ci siano stati consiglieri politici o autori di discorsi che siano stati indispensabili alla First (in fotogenia) Family quanto Souza.
Pete inizia a seguire Barack quando lui è un giovane senatore, tra la presidenza Reagan e quel momento era tornato a fare il fotoreporter. Lo segue in un viaggio a Nairobi, e dice che è lì che capisce che si candiderà alla presidenza, quando fa un discorso sull’Aids e l’importanza di farsi le analisi, e le faremo io e Michelle e quindi potete farle anche voi. Pete viene convinto dal discorso, noi capiamo com’è finita da una foto di Pete. È il dettaglio d’un africano che, sul dorso della mano e sul polso, si è annotato passaggi del discorso di quel giovane senatore. La candidatura più fotogenica di tutti i tempi comincia lì.
da “L’economia del sé. Breve storia dei nuovi esibizionismi”, di Guia Soncini, Marsilio, 2022, pagine 192, euro 17