Sono nato il 9 febbraio del 1941. Quando voglio dare un senso alla mia storia mi soffermo sulla carta geopolitica dell’Europa quando iniziavo il mio cammino nel mondo. In quell’anno si concluse una fase importante della seconda guerra mondiale: l’avanzata nazista raggiunse la sua massima espansione; ma nello stesso tempo l’anno si chiuse con l’entrata in guerra degli Stati Uniti.
Ricapitoliamo brevemente la situazione dall’inizio delle ostilità fino a tutto il 1941. La Germania diede inizio alla guerra invadendo la Polonia, il primo settembre 1939, in combutta con l’Urss che poche settimane dopo invase la parte orientale di quello sventurato Paese. Il Regno Unito e la Francia reagirono dichiarando guerra alla Germania. Ed è per questi motivi che Alessandro Orsini nuova star televisiva, contesa da tutte le reti, si è azzardato a sostenere che Hitler non voleva la guerra e che si meravigliò molto della reazione delle potenze alleate.
L’esercito tedesco invase quindi l’Europa Occidentale nella primavera del 1940. Con l’incoraggiamento della Germania, l’Unione Sovietica occupò gli Stati Baltici, nel giugno dello stesso anno. L’Italia, che era membro dell’Asse (composto da nazioni alleate con la Germania) entrò in guerra il 10 giugno 1940.
Dopo essersi assicurati il controllo dei Balcani tramite l’occupazione della Jugoslavia e della Grecia, iniziata il 6 aprile 1941,i Tedeschi e i loro alleati diedero inizio all’invasione dell’Unione Sovietica, il 22 giugno 1941, violando apertamente il precedente patto di non aggressione. Tra il giugno e il luglio del 1941, i Tedeschi occuparono anche i Paesi Baltici. Di conseguenza, il leader sovietico Joseph Stalin diventò – da quel momento e per tutta la durata della guerra – uno dei maggiori rappresentanti del fronte Alleato che si opponeva alla Germania Nazista e agli altri paesi dell’Asse. Durante l’estate e l’autunno del 1941, le truppe tedesche avanzarono profondamente in territorio sovietico.
Il 6 dicembre 1941, le truppe sovietiche lanciarono un’imponente controffensiva. Il giorno seguente, il 7 dicembre 1941, il Giappone (una delle forze appartenenti all’Asse) bombardò la base americana di Pearl Harbor, nelle isole Hawaii, causando l’entrata in guerra degli Stati Uniti a fianco del Regno Unito e dell’Unione Sovietica. In quell’anno, dunque, si concluse una fase importante della seconda guerra mondiale: l’avanzata nazista raggiunse la sua massima espansione; ma nello stesso tempo l’anno con l’entrata in guerra degli Stati Uniti si apriva un altro scenario.
Va ricordato che l’11 marzo 1941, il Congresso americano approvò, su iniziativa del presidente Franklin Delano Roosevelt, la legge affitti e prestiti che consentì all’Amministrazione americana ancora intrappolata in una posizione di neutralità nel conflitto di fornire sistemi di armamenti ai Paesi la cui sicurezza rappresentava un interesse strategico per l’America (la medesima operazione compiuta da Joe Biden nel contesto della guerra in Ucraina).
Le sorti del conflitto – allargato dopo Pearl Harbor al fronte del Pacifico – erano ancora in bilico. Il principale risultato positivo era stata la resistenza del Regno Unito, condotta all’inizio in condizioni molto difficili. Tra il 10 luglio e il 31 ottobre del 1940, i Tedeschi ingaggiarono e persero la guerra dei cieli divenuta famosa come la Battaglia d’Inghilterra. Winston Churchill commentò quell’evento con parole passate alla storia con riguardo al valore dei piloti della Raf: «Mai, nella storia degli umani conflitti, tanti devono così tanto, a tanto pochi».
Chi scrive ha coltivato un grande interesse per gli avvenimenti che – in quell’intermezzo, praticamente un lungo armistizio tra i trattati di Versailles del 1919 e l’invasione della Polonia – condussero all’inizio del secondo conflitto del secolo scorso e al sacrificio di 55 milioni di esseri umani (per non parlare delle tragedie che ne furono un effetto collaterale). Lo ho fatto nella convinzione che – mutatis mutandis – la storia possa ripetersi.
Abbiamo conosciuto, dopo il 1989, crisi economiche che hanno fatto traballare la stabilità finanziaria (produttiva e sociale) del mondo globalizzato; abbiamo visto risorgere i nazionalismi nel brodo di coltura di un populismo assunto come linea di governo; il mondo si è dovuto misurare con una pandemia che ha richiamato alla memoria l’influenza denominata la spagnola; poi vi è stata l’aggressione russa dell’Ucraina che – sarà anche vero che la storia non si ripete – sembra ispirata alle medesime istanze geopolitiche poste dal nazismo a fondamento delle sue mire imperialistiche.
Un altro elemento inquietante lo si ritrova – soprattutto in Italia, ma non solo – nel formarsi di una corrente di opinione pubblica che invoca la pace più o meno rivisitando lo spirito di Monaco del 1938. Allora furono consegnati ad Hitler i Sudeti, oggi si è pronti a riconoscere a Putin la sovranità su pezzi di Ucraina, violando i confini stabiliti da trattati internazionali.
Così andando alla ricerca di antiscientifici parallelismi, mi sono imbattuto (leggendo il saggio ’’Splendore e viltà’’ di Erik Larson, pubblicato dalla Biblioteca della democrazia del Corriere della sera a cura di Antonio Scurati) in un episodio che non conoscevo ma che ben si inquadra nella strategia che Hitler adottò nei confronti dell’Inghilterra: indurre il governo di Sua Maestà a negoziare una resa condizionata che non era affatto un’opinione peregrina nell’ambito dell’establishment all’inizio del conflitto.
Tanto che nelle prime fasi della guerra aerea furono evitati i bombardamenti su Londra. La furia della Luftwaffe si scatenò quando venne a mancare del tutto la prospettiva di un negoziato. Ma ormai era tardi.
Il 19 luglio, Hitler tenne un discorso al teatro di Berlino intrattenendosi a lungo sull’andamento del conflitto ed elogiando il valore delle truppe tedesche, poi alla fine, da consumato attore e abile oratore, giocò la carta dell’appello alla pace: «Signor Churchill – disse il Fuhrer – per una volta mi creda quando l’avverto che un grande impero sarà distrutto, un impero che non ho mai avuto intenzione di distruggere o anche solo di danneggiare».
E proseguì: «In quest’ora decisiva la coscienza mi impone ancora una volta di fare appello alla logica e al buon senso dell’Inghilterra e delle altre nazioni. Ritengo di essere nella posizione giusta per farlo, perché non solo la parte sconfitta che elemosina favori, ma il vincitore che parla in nome della ragione». E concluse: «Non vedo alcun motivo valido per proseguire questa guerra. Mi addolora pensare ai costi che ne deriveranno. Preferirei evitarli».
La prima risposta del Regno Unito al discorso di Hitler non venne da parte del governo, ma addirittura da un giornalista della BBC che, senza chiedere l’autorizzazione alle autorità, mandò in onda queste parole: «Lasci che le dica, Herr Hitler, che cosa ne pensiamo, qui in Gran Bretagna del suo appello (…) glielo rilanciamo contro quei dentacci da demonio».
Sbaglierò, ma non considero del tutto impropria qualche similitudine con la guerra in corso in Ucraina e con il possibile atteggiamento dei suoi protagonisti. Di una cosa però sono sicuro. Se Putin riconvocasse i suoi sostenitori e ripetesse, rivolgendosi a Zelensky (perché Biden intenda), lo stesso appello che Hitler inviò a Churchill, in Italia (e forse anche in Europa) si leverebbero inni alla gioia, si sprecherebbero sconfinati elogi allo Zar e qualcuno lo candiderebbe al premio Nobel per la Pace.
Nel Parlamento italiano fioccherebbero risoluzioni a sostegno dei propositi negoziali dello statista del Cremlino. I talk show ospiterebbero solo putiniani adoranti, mentre Alessandro Orsini riceverebbe le stimmate della santità.