GaslightingL’aborto, gli ormoni e la subdola filosofia del “già che sei in piedi”

Per le mamme non c’è mai pace: se non vuoi fare un quarto figlio le altre donne ti giudicano nei forum perché ormai ne hai fatti tre, se ti sei appena seduta il marito ti chiede l’ennesimo favore. E se stai partorendo l’ostetrica non ci pensa neanche a farti l’epidurale, tanto stai già soffrendo

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La filosofia del “già che sei in piedi” è una teoria che ho elaborato negli ultimi sei anni, una teoria grazie alla quale mi sto portando avanti con il discorso di ringraziamento per la cerimonia dei Nobel. Il “già che sei in piedi” è nella mia mente la più esatta traduzione del concetto di gaslighting, ossia sia una manipolazione psicologica maligna che si presenta quando uno ti dice: “Già che sei in piedi, mi prendi il telecomando?” quando in realtà ti sei appena seduto. Nessuno ti vede in piedi, perché tutti ti pensano comodo. 

Questa rivoluzione copernicana del sentire investe anche le madri. Prendiamo l’aborto. Se leggete i gruppi Facebook di mamme, le donne che anonimamente chiedono un consiglio sull’interruzione di gravidanza ricevono come risposta: già che ne hai uno, tienilo, dove si mangia in tre si mangia anche in quattro, che se sposti un po’ la seggiola stai comoda anche tu

Una mamma ha scritto che è incinta del quarto figlio, che il marito non ne vuole altri, che vivono con il solo stipendio di lui e un mutuo trentennale, e che lei non sapeva bene cosa fare: tutte in coro le hanno scritto che le avrebbero donato i vestiti smessi dei loro bambini, che poteva mettere su un servizio di Tagesmutter e crearselo da sé un lavoro perché questo sì che è empowerment femminile – beccati questo, patriarcato! -, che ci sono tante famiglie che con i sussidi statali vivono alla grandissima e sono riuscite persino a comprare casa in centro vicino a Citylife, che l’aborto è una cosa brutta brutta brutta, e non c’è un solo commento, uno, che non le dica che questa gravidanza è una notizia favolosa, già, non è davvero favolosa? 

Mamma, già che ne hai fatti tre, già che sei in piedi, partorisci, e poi passami il telecomando. Questo è tutto quello che so sul “niente utero, niente opinioni”. Il “già che sei in piedi” in sala parto raggiunge il massimo del suo potenziale. 

Partorire è un’esperienza di premorte attraverso la quale una donna non è che si percepisce lucidissima, e quindi il dubbio ti viene: non è che sono io? Non è che questa non è violenza ostetrica, ma sono io che non so come funziona? Magari le ostetriche ti dicono: signora, già che è in travaglio, già che soffre, soffra bene, non le serve mica l’epidurale.  Signora, già che vedo la testa, la smetta di urlare. Signora, già che ci siamo, le scollo le membrane. Signora, già che è nuda, non le spiace vero se la faccio visitare da questi giovanotti specializzandi? Signora, già che suo figlio ha fame, non lo vede che ha fame, lo attacchi al seno, ma quale biberon. Sono loro? Siamo noi? Qual è la mail dell’URP? 

Nei corridoi degli ospedali si sente lo sciabattare di alcune signore Danvers che mettono in atto il meccanismo Rebecca: mamma, sei inadeguata, non sei proprio come ti eri immaginata, ma io posso aiutarti a uscire da questo casino.

In un’indagine del 2017 della Doxa (nata su iniziativa dell’Osservatorio sulla Violenza Ostetrica Italia e finanziata dalle associazioni La Goccia Magica e CiaoLapo Onlus) veniva rilevato che circa 1 milione (il 21% del totale) di madri in Italia avevano subito violenza ostetrica. Aogoi, Sigo e Agui scrissero che quella ricerca era offensiva nei confronti del personale ostetrico e ospedaliero, e che era evidente «l’inattendibilità di denunce di violenza ostetrica avanzate sempre da soggetti ignoti e che restano tali in quanto mai identificati». 

Nel 2018 Aogoi, Sigo e Agui effettuano una ricerca «basata su 11.500 partorienti spalmate su 106 punti nascita», dove «emerge una realtà ben differente. Evidenziato anche come il 97% circa delle donne si dichiara soddisfatta della qualità dei servizi che ha ricevuto nel reparto di Ostetricia e il 96% dei servizi del ginecologo». Sono loro? Siamo noi? Avrò spento la luce a gas? 

La cosa che più mi ha impressionato quando ero in ospedale è stato essere chiamata «mamma» da tutti. Immagino che questa pratica sia stata pianificata per non imparare mai i nomi di nessuno come nella migliore tradizione della professionalità italiana, poi ci pensi e ti rendi conto che da quel momento non hai più un nome proprio, ma un nome comune di ruolo sociale. Smetti di essere una persona, diventi una parte, e sei non sei abbastanza centrata poi succedono i brutti guai. 

Com’è possibile che tu pianga di fronte al dono della vita, forse non vuoi bene a tuo figlio? In questo momento pare che la risposta a tutto sia: «ormoni». Piangi? Ormoni. Hai sempre fame? Ormoni. Tuo figlio ha la dermatite atopica? Ormoni. Ti viene da urlare perché i parenti ti si piazzano in camera e ti dicono che stai sbagliando tutto? Ormoni. Sono gli ormoni o sei pazza? Sono gli ormoni. 

Succede poi che si torna a casa, succede che la mamma stia con il bambino tutto il giorno, e che il marito torni al lavoro. Chi esce di casa pensa sempre che chi rimanga non faccia niente, cosa vuoi che sia. E quindi: già che sei a casa, ti spiace far da mangiare? Già che sei a casa, ti spiace pulire? Già che sei a casa, come puoi pretendere che io tenga il neonato dopo una giornata a spaccarmi la schiena per mantenervi? E già che ti senti in colpa, puoi esserlo davvero? Già. Saranno gli ormoni.

Passa qualche mese, e quando la gente smette di dire «ormoni» inizia ad andare un pochino meglio e ci si ricorda di avere un nome proprio. Vale comunque la pena, ogni tanto, far presente che ci si è appena sedute.

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