Come molte delle persone che lavorano tanto e con efficienza, e che hanno familiarità con il successo, Raffaella Carrà era un tipo piuttosto superstizioso. Aveva tutta una serie di rituali scaramantici, di abitudini propiziatorie: lei stessa raccontò per esempio di non entrare mai in scena da destra e che se in camerino le cadeva il pettine doveva batterlo tre volte prima di tornare a utilizzarlo. Prima di ogni debutto importante, poi, aveva il suo rito culinario: «Per scaramanzia la mattina di ogni prima televisiva, preparo il ragù alla bolognese, le tagliatelle e il tiramisù». Il sostanzioso menù era condiviso con due o tre persone selezionatissime del cast o della troupe, che la accompagnavano a casa per cenare dopo lo show.
Per la cronaca su YouTube si trova un video in cui lei stessa racconta, in una specie di programma parodico con Luca Barbareschi, la sua personalissima versione del ragù, imparata da Japino e rielaborata con estro: aglio intero rosolato, verdure tritate, carne macinata e un po’ di salsiccia, vino a sfumare e poi il pomodoro ovviamente («A Bologna mi guarderanno e diranno: ma cosa fa quella lì?»). Ma a parte le libertà in cucina, le scaramanzie più grandi della Raffa riguardavano il vestiario: era un must per lei che a ogni debutto, fin dal lontano 1970, indossasse sempre un abito bianco candido, per la seconda puntata, invece, si virava subito al rosso. Un pattern cromatico irrinunciabile, per lei un segnale di sicurezza e buon augurio.
Per chiunque altro potrebbero sembrare dettagli secondari, superficiali. Ma nessuna regina dello spettacolo può prescindere dal modo in cui appare, da come si manifesta al pubblico esteticamente. Anzi, nel suo caso, iconograficamente. Per Carrà vestirsi, acconciarsi, pettinarsi non erano un’attività qualunque. E non dovrebbe esserlo per nessuno, forse.
Per lei quella che indossava sul palco era una divisa, un’armatura, una bandiera: prepararsi per andare in scena, truccarsi, agghindarsi era un’ulteriore attenzione riservata a chi la guardava, un manifesto di cura. Attraverso i suoi abiti e le sue acconciature Carrà raccontava sé stessa, ma accoglieva anche l’altro.
[…]
Erano altri tempi e questa ostentata artificiosità era qualcosa di persino concettuale. Sta di fatto che Raffaella copriva la sua chioma: non aveva ancora trovato un taglio che la soddisfacesse e rappresentasse. Nata mossa, pare che quei capelli ricci fossero diventati per lei un vero e proprio complesso. Nei primi anni delle sue comparsate in televisione cercò un taglio che la definisse in modo univoco: quei tentativi la portarono verso un look un po’ bombato, quel bob style tanto caro alla moda parigina del primo Novecento, che era però ancora troppo anonimo, comune. E neanche molto comodo. Fu ancora una volta l’intervento di Boncompagni a determinare una delle svolte più clamorose nella carriera di Carrà, che decise a un certo punto di giocare la carta estrema: diventare bionda. Agli uomini piacciono le bionde ma sposano le more, recita l’adagio, ma la nostra Raffa non aveva intenzione di farsi sposare da nessuno: i suoi obiettivi erano altri. Responsabile principale della trasformazione radicale di Raffaella in senso tricologico fu Cele Vergottini.
Da “L’arte di essere Raffaella Carrà”, di Paolo Armelli, (Blackie Edizioni), numero pagine, costo 20 euro, 226 pagine