Paulo maiora canamus. L’emistichio vergiliano cade a proposito nello scrivere del 37° viaggio apostolico di Papa Francesco, mentre da noi continua ad andare in scena la più indegna delle farse politiche degli ultimi anni. E dunque sì, cantiamo cose un po’ più nobili, anche perché l’itinerario canadese di Bergoglio, che, iniziato domenica scorsa, terminerà sabato, non può paragonarsi a quelli finora compiuti in altri Paesi. Ha infatti un carattere inedito questo viaggio che lo stesso pontefice ha definito più volte «pellegrinaggio penitenziale».
Parole, queste, che hanno scandalizzato benpensanti di ogni latitudine, poco o nulla avvezzi alle richieste di perdono da parte d’un pontefice, e suscitato critiche da più parti al pari del tradizionale copricapo piumato, che Francesco ha indossato lunedì a Maskwacìs al termine dell’incontro con rappresentanti di Prime Nazioni, Métis e Inuit. Forse dimentichi che già Paolo VI aveva indossato una consimile «corona di penne» e che Pier Paolo Pasolini, scrivendo de «lo storico discorsetto di Castelgandolfo» sul Corriere della Sera il 22 settembre 1974, s’era riferito a quella immagine inconsueta di Montini come a ciò su cui «il tacere è bello (ma non per ipocrisia, bensì per rispetto umano)».
Non è stato affatto un atto di clamore mediatico né un’uscita estemporanea – qualcuno ha parlato di ennesima bergogliata – la richiesta ecclesiale di perdono, che Francesco ha rivolto lunedì alle popolazioni indigene «per i modi in cui, purtroppo, molti cristiani hanno sostenuto la mentalità colonizzatrice delle potenze che hanno oppresso i popoli indigeni» e per quelli «in cui molti membri della Chiesa e delle comunità religiose hanno cooperato, anche attraverso l’indifferenza, a quei progetti di distruzione culturale e assimilazione forzata dei governi dell’epoca, culminati nel sistema delle scuole residenziali». Quella rete di collegi, cioè, amministrati in larga parte dalla Chiesa cattolica e per il resto dalle Chiese anglicana e unita del Canada, in cui tra il 1863 e il 1998 il 30% di bambine e bambini indigeni, pari a circa 150.000, sono stati collocati, dopo essere stati sottratti alle loro famiglie, e sottoposti a ogni genere di abusi fino, in non pochi casi, a una verosimile morte per stenti.
Quella rete di collegi, cioè, amministrati in larga parte dalla Chiesa cattolica e per il resto dalle Chiese anglicana e unita del Canada, in cui tra il 1863 e il 1998 il 30% di bambine e bambini indigeni, pari a circa 150.000, sono stati collocati, dopo essere stati sottratti alle loro famiglie, e sottoposti a ogni genere di abusi fino, in non pochi casi, a una verosimile morte per stenti.
Chiedendo perdono, il Papa ha invece fatto memoria di tali «esperienze devastanti» – e la parola memoria è ricorsa otto volte nel discorso Maskwacìs –, consapevole che «la dimenticanza porta all’indifferenza» e che, sulla base d’una citazione di Elie Wiesel «l’opposto dell’amore non è l’odio, è l’indifferenza… l’opposto della vita non è la morte, ma l’indifferenza alla vita o alla morte».
Ma Bergoglio s’è anche detto d’accordo con non pochi dei rappresentanti di Prime Nazioni, Métis e Inuit sulle scuse quale punto non di arrivo ma di partenza in un processo, di cui una parte importante «è condurre una seria ricerca della verità sul passato e aiutare i sopravvissuti delle scuole residenziali a intraprendere percorsi di guarigione dai traumi subiti».
Di guarigione «dai traumi delle violenze subite» e dagli «effetti terribili della colonizzazione» Francesco ha parlato più diffusamente l’altro ieri nell’omelia tenuta presso il Lago Sant’Anna, luogo sacro per le popolazioni native, che il 26 luglio di ogni anno vi si recano da secoli in pellegrinaggio. Ma più eloquente di parole e di gesti, che per Phil Fontaine, uno dei leader attuali delle Prime Nazioni, sono segno del «grande coraggio e umiltà» del Papa, sarà decisamente l’immagine dello stesso Bergoglio che, in carrozzina, prega da solo sulle rive di quel lago.