È difficile capire per quale ragione il passaggio all’opposizione del Movimento 5 stelle debba essere giudicato una sciagura e il rischio dell’effetto a catena, che la Contexit potrebbe innescare sul lato destro dello schieramento di maggioranza, debba considerarsi superiore a quello di un fine legislatura in cui tutti i partiti che sostengono il Governo chiedano e ottengano anch’essi i trofei che i grillini esigono per non prendere la porta. Sto in maggioranza, se. Voto la fiducia, però. Se a loro hai dato questo, noi vogliamo quest’altro.
Anche l’evocazione del Papeete dovrebbe considerarsi propizio, al di là delle evidenti differenze. Allora c’era un Salvini che si sentiva onnipotente dopo il 34% delle europee, qui c’è un Conte che non sa come assicurare futuro politico a un partito ormai totalmente neutralizzato nello schema dell’esecutivo. Però, se quello di Conte sarà qualcosa di simile a un Papeete, cioè un cambio di strategia opportunistico, in cui la rottura del patto di governo non è la conseguenza di qualcosa, ma un fine in sé, ci sono molte ragioni per ritenere che l’ex presidente del Consiglio finirà esattamente come il suo ex ministro dell’interno: ad agitarsi inutilmente all’opposizione.
Né alla Camera, né al Senato, dopo la scissione di Luigi Di Maio, il M5S ha numeri determinanti per la tenuta della maggioranza. Il gruppo Insieme per il futuro, al di là della ripulsa etica ed estetica che può oggettivamente suscitare la trasformazione di Di Maio in una sorta di Nando Mericoni dell’atlantismo nazionale, garantisce all’esecutivo una pattuglia di responsabili a costo zero, destinata peraltro a ingrossarsi per portare la legislatura alla fine naturale.
Certo il rischio è che alla fine anche la Lega inizi politicamente a “pazziare”, come il suo leader è solito fare, ma ci sono indicatori sufficienti per ritenere che i colonnelli di Salvini, che non sono migliori di lui, ma hanno interessi diversi dai suoi, non siano così propensi a regalare a Giorgia Meloni le elezioni anticipate. Ragionamento che vale, a maggiore ragione, per Forza Italia.
Molto fa insomma pensare che il Governo, cioè questo esecutivo, sarebbe rafforzato dall’uscita del M5S, rimanendo con una più che sufficiente base parlamentare. Non ci sarebbe neppure bisogno di un Draghi-bis.
Di tutte le accuse che si possono muovere a Conte, l’unica infondata oggi è quella di volere soggettivamente determinare e potere oggettivamente decretare la fine della legislatura.
L’angoscia che la possibile uscita del M5S dalla maggioranza sembra suscitare non è però legata alle sorti dell’esecutivo, ma a quelle del centro-sinistra e in particolare del PD, che è legato mani e piedi alla strategia del campo largo, fondata sull’asse con l’(ex) fortissimo riferimento del mondo progressista. Però anche la fine di quest’equivoco, che ha portato in questi anni più a grillinizzare il PD che a democratizzare i grillini, potrebbe rivelarsi benefico e persuadere chi comanda al Nazareno che la lotta contro le destre è solo un pezzo di quella necessaria riabilitazione della democrazia italiana dalla dipendenza politica bipopulista.
L’alternativa, anche nella prossima legislatura, rimarrà quella tra la continuità di metodo e di contenuti con l’azione dell’esecutivo Draghi (anche al di là del nome del futuro Presidente del Consiglio) e quella della cosiddetta discontinuità, cioè, in pratica, dell’eterno ritorno dell’identico di una politica senza amore e responsabilità, senza rispetto di sé e degli altri, senza alcuna idea e ambizione che non sia quella di comprare consenso a debito da un Paese sempre più preda delle passioni tristi dell’odio personale e dell’invidia sociale.
Se non altro, la Contexit aiuterebbe a illuminare la portata di questa alternativa fondamentale e a spingere il mondo progressista, per necessità, se non per scelta, a immaginare strade nuove per affrontarla, abbandonando quelle vecchie e lungamente percorse solo per eluderla.